domenica 23 agosto 2015

Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza. (D.Alighieri)

La vita, in quanto esserei umani su questo pianeta, ci è stata donata milioni di anni fa.
E cosa ne abbiamo fatto noi?
Come poter valorizzare la nostra permanenza , i nostri giorni, la nostra vita?
Tempo e conoscenza, conoscenza e tempo. La facoltà di poter legare indossolubilmente queste condizioni, garantisce ed evidenzia il nostro diritto a esistere.
La conoscenza si traduce in un percorso non immendiato nè di chiara definizione, come una vaga ed eterea impronta lasciata sulle dune di un caldo deserto: un momento prima c'è e mezzo secondo dopo svanisce. Cosa allora ne attesta l'avvenuta esistenza? Il tempo, quella frazione di secondo che aveva permesso all'orma di essere impressa sul terreno. E così siamo noi: è necessario abbandonare l'idea di definire l'unità come mezzo di misura per l'ente vivente e valorizzare il tempo come il collante vero in grado di dar valore completo sia al nostro esistere che alla conoscenza che introduciamo nei nostri giorni.
Gli uomini si considerano unici. Hanno basato l'intera teoria dell'esistenza sula loro unicità. Uno è la nostra unità di misura. Ma non è così. I sistemi sociali che abbiamo costituito sono un'abbozzo. 1+1=2. Questo abbiamo imparato. Ma 1 + 1 non ha mai fatto 2. Non esistono in realtà né numeri né lettere. Abbiamo codificato la nostra esistenza per ridurla a dimensione umana, per renderla comprensibile. Abbiamo creato una scala di misura così da dimenticare la sua natura insondabile.
(Dal film Lucy)

Non è un'idea facile da digerire. Per secoli e secoli l'uomo si è arrovellato nel vano tentativo di ricercare il perno su cui fare riferimento per tutte le questioni dell'umanità. Dalla scolastica filosofia teocentrica del medioevo alla visione rivoluzionaria dell'antropocentrismo rinascimentale così ben descritto da artisti e pensatori dell'epoca, Leonardo da Vinci in primis che con il suo uomo vitruviano poneva i fondamenti della valorizzazione dell'uomo come unità di misura anche geometrica cui fare riferimento per comprendere appieno i misteri dell'universo. Da quel momento in poi, si è radicata a fondo la concezione di imporre l'uomo come unità di misura e la conseguente necessità di modellare l'esistenza secondo questo bisogno, per cui ogni cosa che ci circonda è a misura d'uomo.
Ma allora, se l'uomo non è l'unità di misura e il mondo non è governato dalle leggi della 
 matematica, che cosa governa tutto? Ritorniamo all'esempio dell'impronta: il tempo da legittimità alla sua esistenza. Il tempo è la sola vera unità di misura. È la prova dell'esistenza della materia. Senza tempo noi non esistiamo.
Non si tratta tuttavia di sprecare il tempo che ci è concesso alla vanagloriosa ricerca di un motivo o di modelli attuabili alla valorizzazione dell'esistenza; senza voli pindarici alla ricerca di chissà che, il modo per rendere unica la nostra esistenza senza ridurci a esaltare noi stessi è a portata di mano: la conoscenza. E non si tratta del mero tentativo di arruffare informazioni varie e mischiarle indiscriminatamente in un calderone e aspettare passivi il risultato. Si tratta infatti di un processo molto sottile: non è conoscenza, ma amore per la conoscenza. Appassionato desiderio di sapere. Volontà di conoscere e apprendere consapevolmente i perchè del mondo e di ciò che è.
Questa passione gnoseologica contestualizzata nella necessaria valorizzazzione del tempo come unità di riferimento, ci permette di esaltare il mezzo per esprimere e comprendere questo binomio: il nostro cervello. Questa informe massa gelatinosa è dotata di connessioni sinaptiche, di collegamenti interneuronali che supera di gran lunga il vasto numero di stelle presenti nella nostra galassia: ma di questa infinità disponibilità di mezzi, siamo noi in grado di sfruttare in modo consapevole tutte le possibilità materiali che ci vengono concesse?
A causa di teorie pseudoscientifiche spesso avvalorate da prodotti editoriali o cinematografici ai quali le masse fanno gran riferimento (probabilmente perché fa leva sulla nostra sensazione che potremmo fare e imparare molte più cose, se solo ci applicassimo), è nata la credenza mai affermata dalle scienze, secondo la quale saremmo in grado di sfruttare solo il 10% delle nostre capacità cerebrali. Nata forse con le sperimentazioni che alcuni neurochirurghi fecero negli anni Trenta, tale credenza continua a spargersi a macchia d'olio tra la popolazione. Un eminente neuroscienziato, Barry Beyerstein (in Whence Cometh the Myth that We Only Use 10% of our Brains? in Sergio Della Sala (a cura di), Mind Myths: Exploring Popular Assumptions About the Mind and Brain, Wiley, 1999), ha proposto una serie di tesi secondo le quali risulta essere impossibile considerare il cervello non utilizzato completamente:
  1. Studi sui danni al cervello. Se, normalmente, il 90% del cervello fosse inutilizzato, eventuali danni in queste aree non avrebbero alcun effetto sull'individuo; al contrario, non esiste pressoché area del cervello che, se danneggiata, non infici anche le capacità dell'individuo: perfino piccoli danni possono produrre gravi effetti.
  2. Evoluzione. Il cervello è un apparato "enormemente dispendioso" per il nostro corpo in termini di consumo di ossigeno e di elementi nutritivi: pur avendo una massa pari a solo il 2% dell'intero corpo umano, assorbe il 20% del fabbisogno energetico di un essere umano. Se il 90% fosse davvero inutilizzato, allora l'uomo ricaverebbe un grande vantaggio in termini di sopravvivenza dal possedere un cervello molto più piccolo ed efficiente, per cui la selezione naturale avrebbe eliminato quella parte del cervello inutilizzata.
  3. Immagini di tomografie cerebrali. Tecnologie come la PET e la RMNf permettono di monitorare le attività del cervello, rivelando, ad esempio, che tutte le parti del cervello sono in attività anche durante il sonno; solo in caso di gravi danni cerebrali esistono parti del cervello non attive.
  4. Localizzazione delle funzioni. Sebbene il cervello si comporti come una singola massa, nel cervello esistono distinte aree per distinte funzioni; decenni di ricerche hanno permesso una mappatura completa e non sono state trovate aree del cervello alle quali non siano state associate delle funzioni precise.
  5. Analisi microstrutturale. Esistono metodi di indagine basati su misure microscopiche, realizzate con l'inserimento di un elettrodo nel cervello, che permettono di monitorare l'attività di piccolissimi gruppi di cellule (multi-unit microelectrode recording) o, addirittura, di un singolo neurone (single-unit microelectrode recording). Se davvero il 90% dei neuroni fosse inutilizzato, queste tecniche l'avrebbero già rivelato per via strumentale.
  6. Studi metabolici.
  7. Decadimento neuronale. Le cellule cerebrali non utilizzate tendono al decadimento; se il 90% del cervello fosse inutilizzato, una semplice autopsia rivelerebbe il decadimento del 90% delle cellule cerebrali.
Se siamo fisicamente preparati a sostenere la responsabilità dell'utilizzo massivo del cervello, perchè non ci gustiamo le prelibatezze che ci dona attraverso la metodica gestione del tempo atta alla beatitudine della conoscenza?
A.Einstein, mio grande idolo, in un articolo-intervista a Scientific American del 1950, proponeva così chiaramente la sua posizione riguardo la necessità della conoscenza.


Esiste una passione per la comprensione proprio come esiste una passione per la musica; è una passione molto comune nei bambini, ma che poi per la maggior parte degli adulti perde. senza di essa non ci sarebbero né la matematica né altre scienze o qualsiasi altra modalità per la scoperta del mondo. Più volte la passione per la comprensione ha condotto all'illusione che l'uomo sia in grado di comprendere razionalmente il mondo oggettivo, attraverso il pensiero puro, senza nessun fondamento empirico; in breve, attraverso la metafisica. Sono convinto che ogni teorico vero sia una sorta di metafisico addomesticato, indipendentemente da quanto possa immaginare di essere un puro 'positivista'. Il metafisico crede che il logicamente semplice sia anche reale. Il metafisico addomesticato crede che non tutto ciò che è logicamente semplice sia incorporato nella realtà esperita, ma che la totalità di tutta l'esperienza sensoriale possa essere 'compresa' sulla base di un sistema concettuale costruito su premesse di grande semplicità.Quindi l'idea teorica non nasce al di fuori e indipendentemente dall'esperienza; né può derivare dall'esperienza per puro procedimento logico. E' il prodotto di un atto creativo, della mente creativa. Una volta che l'idea teorica sia acquisita, è bene seguirla finché non si dimostra insostenibile. 


 Non dobbiamo spaventarci della grande possibilità che ci è stata donata in quanto essere umani, è necessario saper valutare l'importanza della conoscenza non come mera riserva informazionale ma come necessaria esplicazione del proprio io creativo, rendendo così il tempo, il mezzo attraverso il quale conoscere e porre le basi dell'esistenza.


mercoledì 19 agosto 2015

Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo. (Eraclito)

Più le cose cambiano, più rimangono uguali.
Il nostro cervello ben interpreta questa particolare condizione secondo la quale esso si impone specifici e continui mutamenti secondo le esigenze funzionali imposte dall'ambiente. Sto parlando della peculiare attività di neuroplasticità. Potrebbe essere definita come l'attività cerebrale che modifica la struttura e modula le numerose connessioni sinaptiche sia durante il normale sviluppo fisiologico della persona sia per riadattare il cervello a insulti traumatici importanti. Procediamo ad analizzare le modifiche quotidiane appartenenti ad un ambito fisiologico.
Il cervello infatti dimostra la capacità di neuromodulare la sua costituzione in due momenti specifici della nostra giornata: mentre studiamo o impariamo nuovi concetti e durante è attivo il processo di apprendimento motorio. La facoltà di apprendere è dovuta principalmente a un rinforzo delle connessioni sinaptiche attraverso un processo noto agli esperti in materia come Long Term Potentiation (LTP per gli amici). E' un complesso meccanismo che, articolandosi in tre diverse fasi, permette a molteplici sinapsi di aumentare il loro grado di funzionamento attraverso un iniziale aumento d'intensità della scarica depolarizzante (con conseguente maggior rilascio di neurotrasmettitore eccitatorio), una conseguente espressione dell'evento a livello pre e postsinaptico e un finale mantenimento del rinforzo di connessione tramite una modifica parziale del contenuto proteico delle strutture di comunicazione. Si tratta perciò di una forma di plasticità sinaptica a
lungo termine a cui il cervello è sottoposto durante i processi di apprendimento informazionale, in poche parole: è grazie a questo specifico modello funzionale di rinforzo sinaptico che siamo in grado di memorizzare una quantità enorme di informazioni per superare un ostico esame. Chiaro è che questo meccanismo non si  concreta di continuo, ma solo al bisogno, altrimenti alto sarebbe il rischio di sovraccarico elettrochimico e conseguente malfunzionamento delle connessioni.
Simile è il Long Term Depression (LTD). Anch'esso si articola come meccanismo di plasticità sinaptica che entra in gioco nel cervelletto quando, attraverso l'attivazione sincrona di due famiglie di fibre neuronali (parallele e rampicanti) che normalmente non avviene, viene inviato un segnale di errore al nuclei cerebellari profondi deputati al controllo del movimento; eccitati a dismisura da questa attivazione elettrica, inviano un segnale al midollo e quindi ai muscoli per correggere il movimento, mettendo così a memoria quel pattern motorio che non garantiva il raggiungimento di un certo obiettivo funzionale. Tipico è l'esempio del bimbo che impara a camminare: la prima volta che si alza e cerca di fare un passo, cade rovinosamente; tuttavia il suo cervelletto ha immagazzinato le informazioni che possono evitare di farlo cadere alla prossima occasione. Infatti il nostro cervelletto agisce attraverso tentativi ed errori.
Un altro esempio, che dimostra come il nostro cervello si possa adattare alle esigenze esterne modificando determinati pathway neurali, è il meccanismo dell'abitudine. Quasi come un'assuefazione a certi stimoli, l'abitudine si concreta nel non percepire determinate sensazioni quando si è sottoposti a certi stimoli. La spiegazione di tale evento, ancora una volta, è da ricercare nella neuroplasticità. Infatti se presupponiamo che la normale trasmissione delle informazioni nervose richiede la presenza di ione calcio che stimola il rilascio di un certo neurotrasmettitore che codificherà un'informazione chimica in una elettrica, l'abitudine, in quanto tale, dovrà cambiare le carte in tavola. La ripetizione continua di un certo stimolo a cui segue la medesima reazione viene intesa dalle nostre sinapsi come un evento che non deve richiedere un dispendio energetico importante perchè sempre uguale. Impone così una diminuzione della concentrazione di ione calcio, una riduzione del neurotrasmettitore rilasciato e una conseguente riduzione dell'entità della reazione finale. Per cui, dopo che per più e più volte ci siamo spaventati all'abbaiare improvviso del cane del nostro vicino, dopo l'ennesima volta che prestiamo orecchio a tale sonorità il nostro cervello decide che non c'è più bisogno di spaventarsi perchè già conosce l'entità del rumore.
Come non rimanere, ancora una volta, affascinati dalla capacità che il cervello mette in campo a modulare sistematicamente il nostro approccio al mondo? Se l'esistenza scorre lasciando tracce più o meno profonde, il cervello è consapevole della necessità di applicare modifiche importanti alla nostra coscienza perchè si possa apprezzare al meglio l'evento che accade o per riconoscere specifici moduli di funzionamento attraverso le varie forme di neuroplasticità. Quasi il cervello volesse imporre al nostro subconscio la razionale ovvietà del trascorso temporale ma, sviluppando questa considerazione, agisce freneticamente perchè si possa apprendere il più possibile (con LTP), perchè ci si possa muovere nella certezza più sicura (con LTD) o perchè si possa rimanere impassibili davanti a certi eventi privi di valore (con l'abitudine, ma è bene che il cervello, senza richiamare in gioco la nostra volontà, trasformi in assuefatta scontatezza il trascorrere dei nostri giorni?...).
Se la nostra vita è in continuo divenire, allora anche il nostro approccio al reale deve essere così disposto ad un plastico rinnovamento! Non a caso parlo di  divenire: mi sto infatti rifacendo al logos filosofico del buon vecchio Eraclito.
Non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua di un fiume.
Asseriva così il filosofo greco, sottolineando l'importanza del fatto che ogni nostro istante non è mai uguale all’altro e noi non siamo mai gli stessi da un istante all’altro, da un tempo all’altro. Tutto cambia dentro e fuori di noi anche se non sempre riusciamo a percepire questo continuo cambiamento. La cosa più appariscente di noi, il nostro corpo, da un istante all’altro è sempre diverso e noi viviamo in questa continua diversità e di questa continua diversità. Siamo in continuo cambiamento: perdiamo cellule del nostro corpo, perdiamo ricordi sommersi da altri nel vuoto della nostra memoria, e gli stessi che crediamo di conservare sono diversi da un momento all’altro. Per quanto grande sia quello che noi chiamiamo memoria, essa non è mai capace di trattenere fermare per un attimo il nostro continuo divenire. Tutti gli eventi sono continuamente mutevoli come il paesaggio che ci corre via veloce da un finestrino di un treno e del quale ben poco riusciamo a trattenere.
In un contesto così sfuggevole, penso sia necessario non correre il rischio di 'lasciarsi scivolare addosso' lo sviluppo dell'esistenza solo perchè il tempo scorre e, inafferrabile, non potrà mai essere limitato. Se il nostro cervello risponde al variare dell'esistenza imponendo cambiamenti fisico chimici a livello sinaptico, perchè la nostra volontà coscienziale non può operare un'opera di apprezzamento del momento senza che la vita si dissolva senza lasciar traccia come il sogno più vago e indefinito possibile?

sabato 15 agosto 2015

Scegli sempre il cammino che sembra il migliore anche se sembra il più difficile. (Pitagora)

La realtà è spesso tanto ardua e complicata, difficile da affrontare e vincere.
Il nostro cervello, tuttavia, è in grado di organizzare la migliore strategia processuale per affrontare sereni e determinati qualsiasi sfida ci venga imposta giorno dopo giorno: ma quante soluzioni è in grado di creare? Se qualcosa va storto nel piano iniziale, è facile per i nostri intricati circuiti neurali dare vita ad un piano B oppure implica un dispendio energetico così elevato che richiede tempo e sforzi esagerati?
Ecco che un pool di ricercatori, coordinati da Carlo Reverberi, ricercatore del Dipartimento di Psicologia dell'Università di Milano-Bicocca (orgoglio personale), insieme a un team di studiosi della Princeton University, dell’Humboldt University e del Bernstein Center for Computational Neuroscience di Berlino ha trovato la risposta a tali quesiti con una ricerca apparsa sulla rivista Neuron, nell'edizione dell'aprile scorso in cui si va esplorando il processo attraverso il quale le persone, durante l’esecuzione di un compito, decidono autonomamente e senza suggerimenti di cambiare la strategia di esecuzione.
La ricerca rivela che il famigerato piano B nasce in una regione precisa del cervello, la corteccia prefrontale mediale, quando siamo ancora concentrati su un’altra strategia, già alcuni minuti prima che il cambio di piano avvenga davvero.
Fasi dello studio
Gli autori hanno studiato cosa accade nel nostro cervello nelle fasi antecedenti e successive alla scoperta di una nuova strategia. Sono stati coinvolti 36 volontari ai quali è stato richiesto di partecipare a un “gioco”, mentre l’attività del loro cervello era monitorata con risonanza magnetica funzionale.
I volontari dovevano rapidamente determinare la posizione di una nuvola di quadratini colorati che compariva su di uno schermo. Dovevano quindi comunicare la posizione della nuvola premendo il pulsante di sinistra se questa era più vicina agli angoli superiore destro o inferiore sinistro dello schermo, mentre dovevano premere il pulsante di destra se la nuvola compariva in uno degli altri due angoli.
Dopo circa dieci minuti dall’inizio del compito e all’insaputa dei volontari, i ricercatori inserivano una semplice associazione tra il colore della nuvola e la risposta corretta: se la nuvola era rossa, andava premuto il pulsante destro; se era verde il pulsante sinistro.
Questa nuova associazione, se notata, poteva permettere ai partecipanti di cambiare strategia sfruttando il colore al posto della posizione. Questo permetteva di risolvere il gioco in modo più semplice: il colore della nuvola di quadratini era infatti più facile da determinare rispetto alla sua posizione.
Risultato della ricerca.
Dopo un’ora di gioco, solo il 31 per cento dei partecipanti ha individuato e sfruttato l’associazione fra colore e risposta, mentre gli altri hanno continuato a rispondere usando la posizione. I ricercatori hanno scoperto che solo nei volontari che avrebbero poi cambiato strategia, la corteccia prefrontale mediale teneva traccia del colore dello stimolo. Non solo, i ricercatori hanno anche scoperto che quella regione cerebrale cominciava a tener traccia del colore dello stimolo alcuni minuti prima che i volontari effettivamente cambiassero strategia.
Questo segnale era così affidabile che i ricercatori hanno dimostrato come fosse possibile prevedere se uno specifico volontario avrebbe cambiato strategia o meno prima che ciò avvenisse effettivamente.
Lo studio ha quindi messo in rilievo la capacità del cervello di bilanciare al contempo due necessità: da un lato la necessità di focalizzare le nostre risorse sulla strategia corrente ignorando tutta l’informazione non rilevante, dall’altro l’opportunità di lasciare una porta aperta a nuove possibilità ancora ignote.
''Per portare a termine un lavoro – dichiara Carlo Reverberi - spesso focalizziamo al massimo la nostra attenzione su quanto stiamo facendo. In questo modo il nostro cervello tenta di filtrare la grande quantità di informazioni da cui siamo sempre circondati, dedicandosi all’elaborazione di ciò che riteniamo importante.
Ma filtrare troppo talvolta può anche produrre la perdita di informazioni preziose''.
''Questi risultati – aggiunge Reverberi – sono importanti per comprendere meglio il ruolo della corteccia prefrontale mediale nella cascata di eventi che portano a un cambio di strategia e, più in generale, a comprendere meglio il ruolo della corteccia prefrontale nel pensiero umano. I nostri risultati suggeriscono che questa regione simuli in background la strategia alternativa per valutarne l’appropriatezza, mentre il comportamento visibile è ancora determinato dalla strategia corrente''.
Ancora una volta, il cervello dimostra tutto il suo fascino in un'applicazione funzionale della quale siamo assolutamente inconsapevoli: in modo automatico infatti il piano B viene prodotto e rimane lì, pronto per essere sfruttato e usufruito al meglio.
Nasce così un forte collegamento con la filosofia, amorevole compagna di viaggio dei nostri giorni. La facoltà cerebrale di adottare  meccanismi di strategica scelta, differenti e modulabili secondo il contesto, non fanno altro che manifestare una grandiosa qualità del nostro essere: la capacità, cioè, di definirsi attraverso le proprie scelte. Ricalcando le orme che un gigante come S.Kierkegaard ha lasciato sul lastricato sentiero della storia, possiamo infatti definire l'identità di uomo nella sua scelta: quanto singolo, in quanto individuo, l'uomo diventa ciò che è come conseguenza delle sue scelte. Non esistono regole morali, è l'individuo che crea del tutto liberamente la sua etica ed è responsabile delle sue libere scelte e delle sue azioni. L'individuo non può, del resto, fare a meno di compiere scelte, perché anche non scegliere, nella concreta situazione dell'esistenza, è in realtà una scelta. Nonostante il filosofo danese trovi poi nel sentimento dell'angoscia il contrappasso a questa libertà, ritengo sia più utile godere della meravigliosa possibilità che ci è stata concessa e che viene magistralmente attuata dal nostro cervello.

domenica 9 agosto 2015

Non possiamo agire, se non presupponiamo la nostra libertà. (J.Searle)

Agire è la concreta manifestazione del nostro essere.
Attraverso svariate e intricate formazioni circuitali, il nostro cervello è in grado di inviare in maniera più o meno automatica, segnali elettrici al midollo spinale che verranno poi tradotti a livello muscolare con una contrazione motoria specifica. Ma così semplice è lineare è la procedura?
Fino a decenni fa, neurofisiologi e accademici del settore credevano fermamente che l'origine del movimento fosse da identificare nella sola corteccia motoria primaria (Area 4 Brodmann, localizzata nella circonvoluzione prerolandica) in cui, attraverso l'attivazione di diversi pathway elettrochimici, il segnale venisse trasmesso attraverso il fascio piramidale ai motoneuroni spinali interessati all'integrazione funzionale motoria. Ma la realtà, come nella stragrande maggioranza degli episodi nell'esistenza, è davvero molto più articolata e arzigogolata di ciò che si pensa. Grazie all'avvento di fenomenali tecnologie, tra cui l'insostituibile risonanza magnetica funzionale che come un albero di natale evidenzia in fluorescenza le aree cerebrali protagoniste in specifici processi funzionali, si è rivelata un'importante verità: il movimento finale così come lo vediamo e di cui ne acquisiamo esperienza, deriva dall'attivazione ordinata di tre aree cerebrali, associativa parietale, premotoria e la già citata motoria primaria. Fin qua pare tutto normale e non così particolarmente intrigante: ma cerchiamo di analizzare meglio nel dettaglio il ruolo di queste porzioni di cervello. Infatti, come sempre, il cervello non agisce a caso e l'attivazione non sincrona di queste tre regioni è da identificarsi in tre diverse esplicazioni funzionali: il movimento deve essere pensato, organizzato e concretizzato. La velocità con la quale vengono condotte questi meccanismi è così intensa che non ci si accorge minimanente; prima il nostro subconscio esplica la volontà di effettuare un certo movimento, poi cerca di evidenziare le migliori strategie per poterlo concretizzare al meglio in quel determinato contesto ed infine, attraverso la più veloce delle trasmissioni che sfrutta il peculiare rivestimento mielinico delle fibre interessate, viene trasmessa l'intenzione motoria ai muscoli deputati a rendere concreto quella volontà. Ma, forse, fino a qua ancora nulla di stellare. Ma ecco che con gli esperimenti condotti negli anni Sessanta da due ricercatori tedeschi L. Deecke e HH.Kornhuber vi svelerò come, per l'ennesima volta, l'intricato complesso neurocerebrale applica certe potenzialità funzionali in modi tanto inspiegabili quanto interessantissimi. Preparatevi: circa 0.8 secondi prima che inizi l'attività eletttromiografica dei muscoli che fanno muovere il dito (ossia prima che ciascuno di noi veda il nostro dito muoversi), compare un'ampia e composita attivazione elettrica della corteccia cerebrale di entrambi i lobi parietali, composta da un potenziale di preparazione e da un potenziale premotorio che inizia a decrescere prima che il movimento abbia inizio!
Il suo esaurimento è contemporaneo alla comparsa di un'attivazione elettrica della corteccia cerebrale motoria (area 4), detta potenziale motorio, controlaterale al dito che si sta per muovere, che raggiunge il suo massimo durante il movimento. In poche parole, il nostro cervello ( o meglio le aree associative parietali) si attiva, senza che noi ce ne accorgiamo veramente, prima che effettivamente sia compiuto il movimento; la domanda che ne deriva pare quindi tanto ovvia quanto terrificante: siamo noi o qualcun altro che è deputato al compimento inconscio dell'attività motoria come mero mezzo per esplicare l'influenza che gli stimoli esterni hanno sulla nostra psiche?
Se consideriamo, per esempio, un movimento volontario si implica l'assunto filosofico secondo il quale abbia avuto origine da un'autonoma iniziativa dell'individuo. Ma è proprio qua il nocciolo della questione: grazie a questi esperimenti che sottolineano come il nostro cervello si attivi una frazione di secondo prima dell'effettivo movimento, ogni azione che compiamo è in realtà una banale e impersonale risposta a uno stimolo sensoriale, a un istinto o all'emergere di un ricordo, che esclude quindi la libera iniziativa del soggetto? Con gli strumenti della scienza non siamo forse dotati della capacità di rispondere a questo dubbio amletico, tuttavia è la filosofia, scomoda compagna di vita, che può tentare di raggiungere un compromesso in quanto io non sono assolutamente d'accordo nel considerare il nostro approccio concreto al mondo come a un mero parto della psiche che origina da un deterministico legame con istinti e ricordi piuttosto che una libera scelta, una manifestazione voluta del nostro libero arbitrio.
Per cercare di avere una visione più ampia possibile in modo da permetterci di prendere posizione da una parte o dall'altra, usiamo le parole di due illustri accademici riguardo la possibilità di evadere o meno dagli schemi preimpostati a livello neuronale per l'azione motoria
La prima personalità che vi propongo è il direttore del Max Plank Institute for Brain Research di Francoforte, il neurofisiologo Wolf Singer. In un'intervista rilasciata a L'Espresso il 19 agosto del 2004, rispondeva categorico e senza mezzi termini riguardo alla possibilità di un'integrazione del libero arbitrio con l'attività cerebrale: ''La scienza prova che comportamenti, sentimenti ed emozioni umane sono indotti da processi neuronali. Possiamo persino prevedere, quando osserviamo il cervello degli animali, il comportamento che essi adotteranno. Nel cervello dell'essere umano ci sono gli stessi neuroni e le stesse sostanze presenti negli animali. Aumenta solo il numero di cellule e la complessità delle connessioni neuronali. Tutto quel che pensiamo è il risultato di processi che vengono condizionati da moltissimi fattori: ormoni, neurotrasmettitori, connessioni sinaptiche per citarne solo alcuni, e proprio questi fattori determinano il comportamento di una persona. Il libero arbitrio è piuttosto uno spazio di possibilità. Ma ciò che ci induce a scegliere dipende dall'organizzazione del cervello, delle sue varie parti, da fattori come gli ormoni e altre sostanze. Nel nostro istituto a Francoforte abbiamo studiato come l'attivazione dei neuroni in risposta agli stimoli esterni si sincronizza. E i risultati mostrano che nel cervello non c'è un centro nel quale confluisca questa attività, un centro anatomico dove l'Io abbia completa percezione della sua esistenza. Ci illudiamo di decidere, in realtà le decisioni vengono già stabilite dal cervello. L’educazione è importante, il cervello, fino alla pubertà, ha un immenso potenziale di sviluppo. Scienziati e educatori devono cooperare, nel porre la massima attenzione ai primi anni di vita, affinché quelle connessioni, quelle strutture pronte per porre domande all'ambiente, ricevano risposte adeguate.'' Il manifesto più evidente di un duro e serrato determinismo che non lascia spazio a vaghe possibilità sulla validità dell'esistenza dell'atto libero.
Cerchiamo allora di proporre una visione alternativa sfruttando le parole del filosofo americano della mente e del linguaggio J. Searle che  fonda la libertà (discutendone) nella biologia. Nel suo libro La mente, edito da Cortina, dice così: ''Non possiamo disconoscere che tutti i nostri stati mentali sono causati da processi neurobiologici che si producono nel cervello. La filosofia sul libero arbitrio non riesce a conciliare la realtà naturale ed oggettiva con una mente soggettiva ed individuale. Che la mia soggettività e il libero arbitrio sia in ogni caso il prodotto di attività cerebrali. E’ possibile supporre però allo stato attuale della fisica e della neurobiologia, che vi sia una componente quantistica nella spiegazione della coscienza. Esiste, infatti, a livello quantistico un’insufficienza tra causa ed effetto. Ciò che accade nel passato di un sistema, non è sufficiente a determinare una precisa condizione nel futuro del sistema stesso, e questo lascia spazio alla potenzialità del caso. Quindi, anche alla libertà di scelta''.
Ponendo quindi queste due diverse posizioni, da che parte state voi? Ritenete che il nostro atto motorio da cui siamo partiti (e quindi forse anche l'intera esistenza) sia una cascata di reazioni che si susseguono, una mera concatenazione di eventi deterministici specchio dell'effetto dei sensi sulla psiche, oppure ritenete che, nonostante l'evidenza scientifica, non si possa comunque estromettere dal rapporto col mondo una nostra personale visione mediata dalle nostre scelte? A voi l'ardua impresa di trovare un compromesso.
Per quanto mi riguarda, ho deciso di appoggiare completamente il pensiero di Searle che, demonizzando chi considera il libero arbitrio come una vaga illusione, esorta a considerare il fondamentale ruolo delle scelte personali. Infatti, al livello dei piani superiori della mente abbiamo la coscienza, l'intenzionalità, le decisioni e le intenzioni. Al microlivello abbiamo i neuroni, le sinapsi e i neurotrasmettitori. Vi è una lacuna che non si riesce a ridurre a nulla di materiale. L’esistenza di questo gap, ci induce a ritenere che debba esistere un corrispettivo della lacuna anche a livello neurofisiologico. Ed è proprio questo che fa sì che l'agire dell'uomo non sia prodotto in maniera deterministica dall'insieme degli stati cerebrali antecedenti all'azione anche se non sappiamo perchè e come l’evoluzione ci abbia fornito di libero arbitrio.

lunedì 3 agosto 2015

Realtà e coscienza: enigma sempre vivo.

Se il cuore è la rappresentazione anatomica dell'attività circolatoria, il cervello è l'esplicazione fisica di quale realtà funzionale?
C'è chi potrebbe considerarlo come il centro dei numerosi processi biochimici che con notevole complessità garantiscono la parola, la visione, il moto..Qualcun altro, in una visione puramente spiritualistica, potrebbe considerarlo come il mero involucro della nostra essenza divina, della nostra volatile anima.. Io ritengo, senza tante perifrasi e fastidiose elucubrazioni, che il cervello sia la parte anatomica della mente: l'ampia architettura psichica va perciò a coincidere con il freddo e analitico network cerebrale.
Si può considerare la definizione di una reale connessione tra mente e cervello il vero e grande quesito al quale le neuroscienze, dalle loro origini, cercano di trovare una valida e adeguata risposta. E sembra che importanti passi avanti si stiano facendo proprio in tale direzione. Si tratta di un connubio non facile da esplicare e da definire in maniera chiara: si tratta anzi di una diatriba che si accende secoli e secoli fa e che si concreta con l'impossibile legame tra res cogitans e res extensa individuato da Spinoza. Si tratta di un parallelismo coincidente: pensiero e estensione si concretano nella stessa realtà, sia materiale che cognitiva; nessuna delle due crea l'altra ossia non si può ridurre banalmente la mente al parto inconsapevole del cervello. Basta pensare al πάντα ῥεῖ (pánta rêi) ancora attuale di Eraclito: il tutto scorre di stampo greco, non deve essere banalizzato all'ovvio cambiamento che caratterizza l'esistenza umana ma si traduce anche in un ambito in cui il divenire è il naturale proliferare dell'essenza stessa che è uguale a sè stessa nella sua eterna e infinita ricchezza. E cosa è l'essenza più verace del nostro io se non la mente coscienziale che guida ciascuno di noi nelle sue esperienze? La mente ha la stessa realtà del cervello! Inscindibili queste componenti  e inequivocabile il legame che esiste tra queste.
Superato questo scoglio, come fare a valutare la veridicità dell'esplicazione funzionale della mente, la coscienza? Molti direbbero che non c'è nulla di più importante della coscienza. Godiamo della bellezza di un tramonto invernale, del piacere di tornare a casa dopo un lungo viaggio, del calore di una carezza: la consapevolezza delle nostre sensazioni è al centro del nostro essere, se non avessimo accesso a questa meraviglia, saremmo più poveri e il mondo più banale.
Eppure per la scienza, e non solo, la natura della coscienza rimane un mistero: per dirla con il filosofo Thomas Nagel, semplicemente si tratta del ricercare la natura delle nostre sensazioni e di come valutare la coscienza nella sua concretezza. E' forse un quesito che, con la sua intangibilità e vaghezza, fa fatica a delinearsi in un contesto chiaro e delineato quale è quello imposto dal mondo in cui viviamo in cui si esalta in modo fenomenale la sola realtà visibile; tuttavia credo unica e degna di significato la ricerca, non tanto dei classici perchè, quanto piuttosto dei nuovi come che si impongono con forza nell'indagine senza fine per valutare il valore della nostra mente. Il come di cui voglio occuparmi ora cerca di analizzare le radici dell'identità della coscienza: come deve essere considerata, come fisica manifestazione di circuitazioni neuronali, come illusionaria rappresentazione del cervello in risposta a stimoli diversi oppure come l'opera d'arte più bella in cui artista e spettatore cooperano per la resa spettacolare della sua esposizione? Vi dimostrerò, prendendo ad esempio la teoria della mente di N.Humphrey (professore emerito di psicologia a Londra), come la nostra coscienza sia la vera protagonsita del manufatto artistico generato dall'evoluzione del sè attorno all'approccio sensoriale della realtà.
Partiamo nel nostro viaggio da un dubbio che nasce dalla penna dal biologo H. Allen Orr: cervello e neuroni hanno a che fare con la coscienza, ma come fanno dei meri oggetti come questi a dare origine al fenomeno, così stranamente diverso, dell'esperienza soggettiva e coscienziale? Chiaro che tale stranezza non appare come una facile matassa da dipanare nella comprensione dell'esatta esplicazione reale della coscienza, tuttavia non dobbiamo credere che, per la natura della materia, sia necessario partire dall'idea che tutto ciò che è associato alla coscienza sia impenetrabile e difficile. E' necessario, allora, partire da una definizione: Humphrey dichiara la coscienza come l'accesso introspettivo agli stati mentali. Parole mai più azzeccate furono dette! Pensiamoci. Quando osiamo fermarci nella frenesia delle nostre giornate, cerchiamo di estraniarci da ciò che ci circonda e riflettiamo sulle più svariate realtà: questa capacità di autoriflessione non fa altro che manifestare le modalità con le quali esocitiamo il nostro flusso cognitivo sul reale. Ciascuno di noi, quale soggetto della coscienza, è consapevole degli stati mentali (percezioni, desideri, ricordi..) solo nella misura in cui li conosce osservandoli nella propria mente. Ma siamo sicuri che l'io che permette la compenetrazione funzionale e valoriale di queste esplicazioni mentali sia unico e singolo? Forse ora, dopo anni di interazione con il mondo, il sè che percepisce, il sè che agisce e il sè che ricorda si sono fusi insieme grazie all'orchestrale direzione della nostra coscienza, abile ad arruolare e a unire le diverse porzioni dell'io impiegate nella corretta analisi della sensorialità reale; un'unità del sè che si pone come mezzo per garantire alla coscienza di essere foro interiore della mente nella sua intierezza, permettendo così a un pilota automatico ed intelligente di adoperare un controllo sistematico sui vari processi mentali: gli informatici lo definirebbero elaboratore, io lo chiamo io. La coscienza si trasforma nel più decorato dei palcoscenici in cui prende forma l'intera e complessa attività mentale. E ancora ricadiamo nell'assunto precedentemente chiarito dell'autoriflessione come base per l'apprezzamento veritiero del funzionamento della mente.
Se il quadro, finora, è risultato essere vagamente comprensibile al pari di un'intricata tela cubista, ora la realtà si complica se andiamo a ricercare quel peculiare come ci si sente di cui parlava Nagel. Humphrey ritiene che tale analisi alla ricerca del quid fenomenico sia da localizzare nel solo ambito delle sensazioni, nel mondo della percezione sensoriale: sensazioni dotate di una qualità che i filosofi chiamano qualia e che si traducono in vario modo a seconda della rappresentazione che vogliamo dare della coscienza. Se la valutiamo in un ambito meramente realisitico, i qualia sono interpretati letteralemente come mezzo per descrivere come il sè percepisce le diverse sfumature del reale; per gli illusionisti invece è il cervello che fornisce qualità specifiche al reale non dotato di intrinseche peculiarità fenomeniche: chi ha ragione? Come spesso accade e come Aristotele ben preannunciò ai suoi tempi, la verità sta nel mezzo.
Rilevo e faccio mia la riflessione di Humphrey sul valore della coscienza: persuasivo e altrettanto intrigante è considerare i qualia come opere d'arte e non come illusioni nè reali manifestazioni. E' più verace tale via a causa della forte analogia tra sensazioni e opere d'arte, perchè si sottolinea come l'ordinaria informazione proveniente dagli organi di senso sia trasformata e abbellita nel cammino che porta alla coscienza.
 L'arte non è solo imitazione della realtà di natura ma anche un supplemento metafisico alla realtà di natura. F.Nietzsche ci permette così di valutare la coscienza come la forma d'arte più rivoluzionaria che, in continuo divenire, mai cade nel banale e sempre dà all'essenza quel motivo in più per apprezzare pienamente la realtà. Una realtà che spesso necessita di due punti di vista: cosiccome l'artista non è il solo a compiere l'atto della creazione perchè lo spettatore aggiunge il suo contributo, così anche l'architetto ultimo della nostra coscienza,il cervello, si rispecchia nell'essere anche l'osservatore privilegiato di tale realtà. Si chiude così ancora quel circolo, di cui sopra, che fa coincidere pienamente il cervello con la mente.
La valenza forse più inaspettata del valutare la coscienza, parto misterioso e affascinate della nostra mente, come opera d'arte è la componente similedonistica di stampo darwiniano. Mi spiego meglio. Se le sensazioni sono arte, l'artista non può essere semplicemente il singolo cervello ma deve identificarsi nelle forze evolutive della selezione naturale che hanno generato un cervello produttore di qualia. Ma se l'evoluzione ha premiato quei meccanismi atti alla sopravvivenza biologica, perchè dotare il cervello della capacità di creare una ricchezza di contenuti e ornamenti vari? Pensiamo al pavone: l'immensa coda che lo caratterizza non gli permette in alcun modo di volare ma anzi gli garantisce una compagna sicura: quasi come se la funzionale principale dell'arte, anche quella umana, sia quella di indurre l'osservatore ad amare l'artista. Ed ecco qua la novità: la funzione evolutiva dell'arte cerebrale è nientemeno che indurci a innamorarci di noi stessi e perciò di condividere tale amore con altri. Una sorta di traduzione filosofica della realtà cerebrale: se Seneca proponeva al cittadino di migliorare se stesso e condividere poi le sue conoscenze per accrescere la città, così anche nel nostro programma genetico sembra esservi inserito questa spinta edonistica ad apprezzare la personale rappresentazione del reale da condividere poi con chi, la nostra mente ritiene adatta/o a completarci per permetterci di poter apprezzare l'opera nella sua intierezza.