martedì 8 dicembre 2015

La musica, armonia dell'anima. (A.Baricco)

Chi di noi non ha mai sperimentato nella musica un alleato insostituibile da adottare in momenti critici delle proprie giornate? Perchè si concretizza sempre più frequentemente questa spasmodica ricerca della musica anche nei momenti meno opportuni o semplicemente quando si hanno due minuti di tempo libero?
Non credo sia un mero desiderio di estraniamento socioambientale, sono invece convinto dell'effetto edificante e non secondario che le sonorità più disparate hanno nei confronti del cervello oltre che per i ben noti effetti a livello organico come l'influenza sul battito cardiaco, la pressione sanguigna, la respirazione (maggiore quantità di O2 disponibile per i vari distretti corporei) il livello di alcuni ormoni, in particolare quello dello stress, e le endorfine.

Il tutto a evidenziare in modo inequivocabile che la musica è una dimensione totale che si concreta attraverso le metodologie più disparate; ma concentriamoci sugli effetti a livello cerebrale.
Da tempo ormai si conoscono i cosiddetti effetti psicologici, direttamente associati alle peculiari qualità del suono:
  • Altezza: un suono acuto genera una maggior tensione nell'ascoltatore, viceversa un suono meno acuto comporta minor tensione.
  • Intensità: un suono più forte ha un effetto energizzante, più debole rilassante.
  • Timbro (legge di Young): con braccio rilasciato e dita ricurve si produce un suono in cui prevalgono gli armonici consonanti, suono che l'ascoltatore avverte come pieno, rotondo, ricco; viceversa, tenendo il braccio rigido e le dita tese si produce un suono in cui prevalgono gli armonici dissonanti, suono che l'ascoltatore interpreta come povero, rigido, spigoloso.
  • Ritmo: regolare ha un effetto stabilizzante; irregolare (durate varie) destabilizzante.
  • Tempo di esecuzione: veloce ha effetto eccitatorio, moderato comporta un'atmosfera serena.
  • Melodia: costruita su gradi congiunti provoca vissuti piacevoli, viceversa provoca disagio.
  • Armonia: consonante si ha un senso di stabilità, di calma, di conclusione; dissonante inquietudine, tensione, di aspettativa.
Realtà ben note da tempo, cerchiamo allora di scoprire le novità in questo neurosettore in sempre più rapida crescita e che coinvolge sistematicamente anche la nostra visione di percezione sensoriale cognitiva dell'evento stesso. 
erRe
Tratto da http://www.my-personaltrainer.it/salute/musica-benefici.html

Tratto da http://www.my-personaltrainer.it/salute/musica-benefici.html

Recenti studi (Valorie N. Salimpoor e colleghi del Montreal Neurological Institute della McGill University nell'aprile 2013) hanno dimostrato che sottoponendo musica ignota ad alcuni volontari, la fRMI evidenziava sistematicamente l'attivazione funzionale del nucleus accumbens, agglomerato cellulare che assume un ruolo di primo piano nella via serotoninergica del sistema reticolare attivante atto a indurre gratificazione.
Il coinvolgimento del nucleus accumbens conferma recenti indicazioni del fatto che l'effetto emotivo della musica attiverebbe meccanismi di aspettativa e di anticipazione di uno stimolo desiderabile, mediati dal neurotrasmettitore dopamina: quando si tratta di un brano già familiare, il meccanismo dell’aspettativa sarebbe evocato dall'anticipazione mentale dei passaggi più godibili. Nella ricerca di Salimpoor e colleghi, tuttavia, la musica non era conosciuta, ma la risonanza magnetica funzionale ha mostrato che le aree attivate e la mediazione dopaminergica erano le stesse dei brani già noti. La causa, secondo i ricercatori, è una “conoscenza implicita” della musica, ottenuta nel corso degli anni interiorizzando la struttura della musica caratteristica di una certa cultura.
La musica assume così un ruolo totalizzante nella dimensione di gratificazione pacifica dell'essere, e altre ricerche spingono su questo fronte evidenziando come il nostro cervello sia fisicamente cablato sul ritmo musicale. Infatti, quando ascoltiamo una musica, le oscillazioni dell''attività elettrica del cervello si sincronizzano con il suo ritmo e l'esperienza musicale sembra rendere questa coordinazione più precisa anche nel caso di ritmi lenti. La scoperta è di due ricercatori della New York University, in collaborazione con il Max Plank Institute di Francoforte.
Che il ritmo dell'attività cerebrale potesse sincronizzarsi su stimoli esterni era già noto, per esempio alcune oscillazioni sembrano coordinarsi con il linguaggio ascoltato per garantire un saldo aiuto al cervello per trasformare un flusso continuo di suono in una sequenza di elementi distinti, propri del linguaggio, permettendo di comprendere quello che ascoltiamo. Anche nel caso della musica la modulazione dell'attività della corteccia cerebrale sul ritmo musicale sembra legata alla capacità di percepire i brani musicali: una maggiore coordinazione tra ritmo cerebrale e musicale è associata al migliore riconoscimento delle note in alcuni esperimentio condotti su non musicisti. Quando hanno ripetuto il test su musicisti, i ricercatori hanno osservato che la maggior esperienza e familiarità con la musica sembra accentuare la sincronizzazione delle oscillazioni con i brani ascoltati garantendo anche effetti psicologici non secondari.
Una capacità innata di amare la muscia e un cablaggio fisico delle rete neuronali sulle note di un qualsiasi pezzo musicale sia esso Hello di Adele o Sultan of swing dei Dire Straits: è forse questa la base ontologica del piacere musicale?
La valutazine che viene fatta della musica non può tuttavia ridursi a un semplice esperimento, anche certi pensatori illustri ci possono dire la loro per permetterci di avere un quadro molto più ampio per poter considerare la musica una dimensione assolutamente insostituibile nella quotidianità della nostra vita.
Platone in primis.
Dalle opere di Platone risulta chiara la sua idea di un legame stretto tra filosofia e musica. Nel “Fedro”, ad esempio, il musicista e il filosofo sono accostati in virtù della somiglianza delle loro anime. Nel “Fedone”, Platone parla della filosofia come di “musica suprema”. Nella “Repubblica”, infine, si allude ai continui sforzi compiuti dall’uomo per salvaguardare “l’armonia interiore”. Nella “Repubblica”, Platone dice che l’uomo incolto è colui che non è stato iniziato né alla musica né alla filosofia, e che perciò disprezza sia i discorsi sia l’arte dei suoni. Inoltre, parlando della storia greca, il filosofo sostiene che l’antica saggezza dei greci si è sempre interessata alla musica, forse perché essi credevano che gli Dei stessi fossero abili musicisti. Comunque un significato più concreto dato alla pratica musicale accomuna molte proprietà, come l’arte, l’intelligenza, la tecnica, il mestiere. In poche parole per Platone la musica non è solo estetica, ma è anche istruttiva e formativa.
Se però le parole di Platone possono risultare essere didattiche e quasi distaccate dal profondo significato che possiamo attribuire al valore della composizione musicale, permettetimi di concludere con il pensiero di A.Schopenhauer. Nonostante venga riconosciuto come uno dei filosofi più 'tristi' della storia, Schopenhauer è rimasto così abbagliato dal valore della musica che ne ha esaltato le virtù più deliziose: 'la musica oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora, e in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se il mondo non esistesse piú: cosa che non si può dire delle altre arti.'  (Il mondo come volontà e rappresentazione).
Per cui, oltre alla dimostrazione neurofisica del valore della musica, lasciamoci cullare dalle note che rendono la nostra anima serena perchè la musica e’ l’unica arte che va oltre la materia, l′unica che può esistere anche senza il mondo. E’ molto profonda, perché’ non esprime semplicemente un’idea, ma e’ l’essenza stessa del pensiero e dell’esistenza.

domenica 4 ottobre 2015

Io so che tu sai che io so.

"Vi è un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l'ignoranza". 
Con queste parole, Socrate ben identificava la necessità dell'uomo in quanto tale di rendersi partecipe dell'esistenza attraverso un approccio cognitivo diretto, atto all'apprendimento del mondo e alla necessaria traduzione concreta di ciò mediante la processazione meticolosa di tutte le informazioni apprese.

Dalle  informazioni sociali che veniamo bombardati ogni momento, dall'espressione non verbale del passante allo sguardo ambiguo dell'amico, siamo in grado di codificare una vasta gamma di significati attraverso le funzioni cognitive più disparate e complesse per fare in modo di acquisire una certa competenza sociale (trovare cioè il giusto posto nel mondo) favorendo così una giusta attribuzione mentale a tale informazione: ovverosia, come questa notizia può interfacciarsi con la mia esistenza e come con quella del mio vicino. Questa intricata attività di associazione informazione-significato, nota come social cognition, è in realtà uno step fondamentale per poter ampliare  e meglio disporre di una buona empatia. Con tale termine, definiamo la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d'animo o nella situazione di un'altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva. Esistono perciò due diverse categorie di empatia: calda o emotiva e cognitiva. La prima definizione, sviluppata mediante processi di selezione naturale, si esplica in un contesto sociale con la partecipazione convinta al vissuto dell'altro mentre quella cognitiva si traduce nella capacità di poter predirre i comportamenti altrui, che assume così un alto livello di complessità sociale. 
Non solo Socrate ci aiuta a contestualizzare tale considerazione neuroscientifica, anche il filosofo greco Aristotele (IV secolo A.C.) nella sua Politica  scrisse: ''L’uomo è un animale sociale in quanto tende ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società''. Una dimostrazione concreta di come l'essere vivente della specie umana esista per creare contatti con i suoi simili; tale bisogno tuttavia, non nasce come esigenza psicofisiologica alla comunione con l'altro quanto piuttosto a causa della struttura anatomofisiologica del nostro cervello cablato proprio per i rapporti interumani. 
Con la metafora di 'cervello sociale' suggerisco che l'evoluzione, attraverso la selezione naturale, ha scelto per la capacità di riconoscimento, di elaborazione e di calcolo degli stimoli sociali, per massimizzare la possibilità di sopravvivenza e riproduttiva di un individuo. Infatti studi hanno dimostrato che il rapporto tra peso del cervello e peso corporeo sia in realtà sproporzionato di circa tre volte rispetto alle altre specie viventi, quasi a voler dimostrare empiricamente che la costituzione del nostro cervello sia atta all'istituzione di interazioni sociali. 
Taglio sagittale che permette di visualizzare tutte le componenti del sistema limbico interessate nell'empatia. 


Cerchiamo ora di analizzare quali sono le componenti cerebrali che interagiscono per favorire il nostro approccio sociale all'esistenza. Anatomicamente, la cognizione sociale coinvolge una rete neurale che connette la corteccia prefrontale con le aree temporo-parietali e il sistema limbico, in particolare l'insula anteriore e il cingolato anteriore. Tali aree si attivano in diverse e specifiche circostanze: l'insula e la corteccia frontale orbitale quando viene richiesto di trovare la soluzione a problemi sociali mentre il cingolo con l'insulka si attivano per favorire anche l'empatia del dolore. 
Queste aree non sono poi isolate ma forniscono importanti collegamenti soprattutto con le aree del linguaggio e del riconoscimento delle espressioni facciali: tenete a memoria tale legame che risulterà essere di grande portata quando parleremo dei disturbi neuropsicologici di questo ambito. Non solo, il legame con la corteccia prefrontale si traduce mediante un collegamento con una particolare categoria di neuroni, i cosidetti neuroni-specchio (nel dettaglio nelle prossime puntate) che agiscono come base funzionale dell'attività cognitiva sociale con l'anticipazione del comportamento effettuato anche se l'obiettivo del movimento è ambiguo o nascosto: in poche parole è come se queste cellule ci permettessero di metterci nei panni del nostro interlocutore attraverso una quasi completa imitazione della sua attività motoria-sociale mediante cui poter apprendere, comprendere e prevedere le azioni dei compagni.












Esempio chiaro di come anche un infante manifesti un buon sistema neuroni specchio prefrontale attuato, in questo caso ad apprendere per imitazione (tipico infatti dei primi anni di vita). Nell'età infantile, è inoltre da sottolineare anche l'importante se non fondamentale approccio della figura genitoriale: più questi riescono a rispecchiare lo stato emotivo del bimbo, maggiore è la loro capacità di acquisire capacità cognitive ed emotive: il cervello sociale necessita quindi dei corretti input familiari e ambientali per svilupparsi correttamente.







Pur essendo condizone comune all'uomo la capacità di instaurare relazioni sociali più o meno stabili, non dobbiamo considerare tale assunto come assioma indiscutibile: il collasso delle abilità cognitive sociali è infatti centrale a condizioni psicopatologiche come l'autismo e la schizofrenia. 
In termini generali, la schizofrenia viene considerata come malattia psichiatrica caratterizzata da sintomi psicotici e dalla persistenza di sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e dell'affettività, da un decorso superiore ai sei mesi con forte disadattamento della persona ovvero implicante una gravità tale da limitare le normali attività di vita della persona. In particolar modo tale disturbo esplica delle evidenti difficoltà a intessere relazioni sociali a causa delle allucinzazioni persecutorie che schermano tutto ciò che entra in contatto col soggetto. 
Ricordate che prima accennavo dell'importante legame sistema limbico-aree per la codifica linguaggio ed espressioni facciali? Ecco, è proprio in quest'ambito che questo assume una valenza in più: nel paziente con schizofrenia paranoide o anche disturbo borderline della personalità (un aspetto estremo di autismo), a causa della degenerazione di questo contatto oltre ad altri legami neuronali interni, qualsiasi espressione come una subdola manifestazione di astio.
Come la stragrande maggioranza delle patologie neurologiche, non esiste cura; tuttavia un opzione di terapia sintomatica a base di ossitocina sembra essere papabile. Infatti, una cognizione sociale più complessa richiede capacità di prendere decisioni sociali in situazioni che richiedono fiducia, cooperazione e reciprocità, gran parte delle quali sembra essere sotto il controllo dell'ossitocina. I moderni approcci terapeutici ai disordini psichiatrici utilizzano esplicitamente la crescente conoscenza di come le menti sociali interagiscano e di come queste potrebbero essere finemente regolati da tale peptide.
L'ambito nel quale spaziano tale ricerche è davvero molto ampio, è tuttavia necessario capire che la reale configurazione del nostro approccio all'esistenza sia davvero modulata non solo sulle precostituite formazioni genetiche quanto piuttosto dal pattern associativo di legame con l'ambiente naturale e la famiglia, primo focolare di crescita personale.
 

domenica 23 agosto 2015

Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza. (D.Alighieri)

La vita, in quanto esserei umani su questo pianeta, ci è stata donata milioni di anni fa.
E cosa ne abbiamo fatto noi?
Come poter valorizzare la nostra permanenza , i nostri giorni, la nostra vita?
Tempo e conoscenza, conoscenza e tempo. La facoltà di poter legare indossolubilmente queste condizioni, garantisce ed evidenzia il nostro diritto a esistere.
La conoscenza si traduce in un percorso non immendiato nè di chiara definizione, come una vaga ed eterea impronta lasciata sulle dune di un caldo deserto: un momento prima c'è e mezzo secondo dopo svanisce. Cosa allora ne attesta l'avvenuta esistenza? Il tempo, quella frazione di secondo che aveva permesso all'orma di essere impressa sul terreno. E così siamo noi: è necessario abbandonare l'idea di definire l'unità come mezzo di misura per l'ente vivente e valorizzare il tempo come il collante vero in grado di dar valore completo sia al nostro esistere che alla conoscenza che introduciamo nei nostri giorni.
Gli uomini si considerano unici. Hanno basato l'intera teoria dell'esistenza sula loro unicità. Uno è la nostra unità di misura. Ma non è così. I sistemi sociali che abbiamo costituito sono un'abbozzo. 1+1=2. Questo abbiamo imparato. Ma 1 + 1 non ha mai fatto 2. Non esistono in realtà né numeri né lettere. Abbiamo codificato la nostra esistenza per ridurla a dimensione umana, per renderla comprensibile. Abbiamo creato una scala di misura così da dimenticare la sua natura insondabile.
(Dal film Lucy)

Non è un'idea facile da digerire. Per secoli e secoli l'uomo si è arrovellato nel vano tentativo di ricercare il perno su cui fare riferimento per tutte le questioni dell'umanità. Dalla scolastica filosofia teocentrica del medioevo alla visione rivoluzionaria dell'antropocentrismo rinascimentale così ben descritto da artisti e pensatori dell'epoca, Leonardo da Vinci in primis che con il suo uomo vitruviano poneva i fondamenti della valorizzazione dell'uomo come unità di misura anche geometrica cui fare riferimento per comprendere appieno i misteri dell'universo. Da quel momento in poi, si è radicata a fondo la concezione di imporre l'uomo come unità di misura e la conseguente necessità di modellare l'esistenza secondo questo bisogno, per cui ogni cosa che ci circonda è a misura d'uomo.
Ma allora, se l'uomo non è l'unità di misura e il mondo non è governato dalle leggi della 
 matematica, che cosa governa tutto? Ritorniamo all'esempio dell'impronta: il tempo da legittimità alla sua esistenza. Il tempo è la sola vera unità di misura. È la prova dell'esistenza della materia. Senza tempo noi non esistiamo.
Non si tratta tuttavia di sprecare il tempo che ci è concesso alla vanagloriosa ricerca di un motivo o di modelli attuabili alla valorizzazione dell'esistenza; senza voli pindarici alla ricerca di chissà che, il modo per rendere unica la nostra esistenza senza ridurci a esaltare noi stessi è a portata di mano: la conoscenza. E non si tratta del mero tentativo di arruffare informazioni varie e mischiarle indiscriminatamente in un calderone e aspettare passivi il risultato. Si tratta infatti di un processo molto sottile: non è conoscenza, ma amore per la conoscenza. Appassionato desiderio di sapere. Volontà di conoscere e apprendere consapevolmente i perchè del mondo e di ciò che è.
Questa passione gnoseologica contestualizzata nella necessaria valorizzazzione del tempo come unità di riferimento, ci permette di esaltare il mezzo per esprimere e comprendere questo binomio: il nostro cervello. Questa informe massa gelatinosa è dotata di connessioni sinaptiche, di collegamenti interneuronali che supera di gran lunga il vasto numero di stelle presenti nella nostra galassia: ma di questa infinità disponibilità di mezzi, siamo noi in grado di sfruttare in modo consapevole tutte le possibilità materiali che ci vengono concesse?
A causa di teorie pseudoscientifiche spesso avvalorate da prodotti editoriali o cinematografici ai quali le masse fanno gran riferimento (probabilmente perché fa leva sulla nostra sensazione che potremmo fare e imparare molte più cose, se solo ci applicassimo), è nata la credenza mai affermata dalle scienze, secondo la quale saremmo in grado di sfruttare solo il 10% delle nostre capacità cerebrali. Nata forse con le sperimentazioni che alcuni neurochirurghi fecero negli anni Trenta, tale credenza continua a spargersi a macchia d'olio tra la popolazione. Un eminente neuroscienziato, Barry Beyerstein (in Whence Cometh the Myth that We Only Use 10% of our Brains? in Sergio Della Sala (a cura di), Mind Myths: Exploring Popular Assumptions About the Mind and Brain, Wiley, 1999), ha proposto una serie di tesi secondo le quali risulta essere impossibile considerare il cervello non utilizzato completamente:
  1. Studi sui danni al cervello. Se, normalmente, il 90% del cervello fosse inutilizzato, eventuali danni in queste aree non avrebbero alcun effetto sull'individuo; al contrario, non esiste pressoché area del cervello che, se danneggiata, non infici anche le capacità dell'individuo: perfino piccoli danni possono produrre gravi effetti.
  2. Evoluzione. Il cervello è un apparato "enormemente dispendioso" per il nostro corpo in termini di consumo di ossigeno e di elementi nutritivi: pur avendo una massa pari a solo il 2% dell'intero corpo umano, assorbe il 20% del fabbisogno energetico di un essere umano. Se il 90% fosse davvero inutilizzato, allora l'uomo ricaverebbe un grande vantaggio in termini di sopravvivenza dal possedere un cervello molto più piccolo ed efficiente, per cui la selezione naturale avrebbe eliminato quella parte del cervello inutilizzata.
  3. Immagini di tomografie cerebrali. Tecnologie come la PET e la RMNf permettono di monitorare le attività del cervello, rivelando, ad esempio, che tutte le parti del cervello sono in attività anche durante il sonno; solo in caso di gravi danni cerebrali esistono parti del cervello non attive.
  4. Localizzazione delle funzioni. Sebbene il cervello si comporti come una singola massa, nel cervello esistono distinte aree per distinte funzioni; decenni di ricerche hanno permesso una mappatura completa e non sono state trovate aree del cervello alle quali non siano state associate delle funzioni precise.
  5. Analisi microstrutturale. Esistono metodi di indagine basati su misure microscopiche, realizzate con l'inserimento di un elettrodo nel cervello, che permettono di monitorare l'attività di piccolissimi gruppi di cellule (multi-unit microelectrode recording) o, addirittura, di un singolo neurone (single-unit microelectrode recording). Se davvero il 90% dei neuroni fosse inutilizzato, queste tecniche l'avrebbero già rivelato per via strumentale.
  6. Studi metabolici.
  7. Decadimento neuronale. Le cellule cerebrali non utilizzate tendono al decadimento; se il 90% del cervello fosse inutilizzato, una semplice autopsia rivelerebbe il decadimento del 90% delle cellule cerebrali.
Se siamo fisicamente preparati a sostenere la responsabilità dell'utilizzo massivo del cervello, perchè non ci gustiamo le prelibatezze che ci dona attraverso la metodica gestione del tempo atta alla beatitudine della conoscenza?
A.Einstein, mio grande idolo, in un articolo-intervista a Scientific American del 1950, proponeva così chiaramente la sua posizione riguardo la necessità della conoscenza.


Esiste una passione per la comprensione proprio come esiste una passione per la musica; è una passione molto comune nei bambini, ma che poi per la maggior parte degli adulti perde. senza di essa non ci sarebbero né la matematica né altre scienze o qualsiasi altra modalità per la scoperta del mondo. Più volte la passione per la comprensione ha condotto all'illusione che l'uomo sia in grado di comprendere razionalmente il mondo oggettivo, attraverso il pensiero puro, senza nessun fondamento empirico; in breve, attraverso la metafisica. Sono convinto che ogni teorico vero sia una sorta di metafisico addomesticato, indipendentemente da quanto possa immaginare di essere un puro 'positivista'. Il metafisico crede che il logicamente semplice sia anche reale. Il metafisico addomesticato crede che non tutto ciò che è logicamente semplice sia incorporato nella realtà esperita, ma che la totalità di tutta l'esperienza sensoriale possa essere 'compresa' sulla base di un sistema concettuale costruito su premesse di grande semplicità.Quindi l'idea teorica non nasce al di fuori e indipendentemente dall'esperienza; né può derivare dall'esperienza per puro procedimento logico. E' il prodotto di un atto creativo, della mente creativa. Una volta che l'idea teorica sia acquisita, è bene seguirla finché non si dimostra insostenibile. 


 Non dobbiamo spaventarci della grande possibilità che ci è stata donata in quanto essere umani, è necessario saper valutare l'importanza della conoscenza non come mera riserva informazionale ma come necessaria esplicazione del proprio io creativo, rendendo così il tempo, il mezzo attraverso il quale conoscere e porre le basi dell'esistenza.


mercoledì 19 agosto 2015

Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo. (Eraclito)

Più le cose cambiano, più rimangono uguali.
Il nostro cervello ben interpreta questa particolare condizione secondo la quale esso si impone specifici e continui mutamenti secondo le esigenze funzionali imposte dall'ambiente. Sto parlando della peculiare attività di neuroplasticità. Potrebbe essere definita come l'attività cerebrale che modifica la struttura e modula le numerose connessioni sinaptiche sia durante il normale sviluppo fisiologico della persona sia per riadattare il cervello a insulti traumatici importanti. Procediamo ad analizzare le modifiche quotidiane appartenenti ad un ambito fisiologico.
Il cervello infatti dimostra la capacità di neuromodulare la sua costituzione in due momenti specifici della nostra giornata: mentre studiamo o impariamo nuovi concetti e durante è attivo il processo di apprendimento motorio. La facoltà di apprendere è dovuta principalmente a un rinforzo delle connessioni sinaptiche attraverso un processo noto agli esperti in materia come Long Term Potentiation (LTP per gli amici). E' un complesso meccanismo che, articolandosi in tre diverse fasi, permette a molteplici sinapsi di aumentare il loro grado di funzionamento attraverso un iniziale aumento d'intensità della scarica depolarizzante (con conseguente maggior rilascio di neurotrasmettitore eccitatorio), una conseguente espressione dell'evento a livello pre e postsinaptico e un finale mantenimento del rinforzo di connessione tramite una modifica parziale del contenuto proteico delle strutture di comunicazione. Si tratta perciò di una forma di plasticità sinaptica a
lungo termine a cui il cervello è sottoposto durante i processi di apprendimento informazionale, in poche parole: è grazie a questo specifico modello funzionale di rinforzo sinaptico che siamo in grado di memorizzare una quantità enorme di informazioni per superare un ostico esame. Chiaro è che questo meccanismo non si  concreta di continuo, ma solo al bisogno, altrimenti alto sarebbe il rischio di sovraccarico elettrochimico e conseguente malfunzionamento delle connessioni.
Simile è il Long Term Depression (LTD). Anch'esso si articola come meccanismo di plasticità sinaptica che entra in gioco nel cervelletto quando, attraverso l'attivazione sincrona di due famiglie di fibre neuronali (parallele e rampicanti) che normalmente non avviene, viene inviato un segnale di errore al nuclei cerebellari profondi deputati al controllo del movimento; eccitati a dismisura da questa attivazione elettrica, inviano un segnale al midollo e quindi ai muscoli per correggere il movimento, mettendo così a memoria quel pattern motorio che non garantiva il raggiungimento di un certo obiettivo funzionale. Tipico è l'esempio del bimbo che impara a camminare: la prima volta che si alza e cerca di fare un passo, cade rovinosamente; tuttavia il suo cervelletto ha immagazzinato le informazioni che possono evitare di farlo cadere alla prossima occasione. Infatti il nostro cervelletto agisce attraverso tentativi ed errori.
Un altro esempio, che dimostra come il nostro cervello si possa adattare alle esigenze esterne modificando determinati pathway neurali, è il meccanismo dell'abitudine. Quasi come un'assuefazione a certi stimoli, l'abitudine si concreta nel non percepire determinate sensazioni quando si è sottoposti a certi stimoli. La spiegazione di tale evento, ancora una volta, è da ricercare nella neuroplasticità. Infatti se presupponiamo che la normale trasmissione delle informazioni nervose richiede la presenza di ione calcio che stimola il rilascio di un certo neurotrasmettitore che codificherà un'informazione chimica in una elettrica, l'abitudine, in quanto tale, dovrà cambiare le carte in tavola. La ripetizione continua di un certo stimolo a cui segue la medesima reazione viene intesa dalle nostre sinapsi come un evento che non deve richiedere un dispendio energetico importante perchè sempre uguale. Impone così una diminuzione della concentrazione di ione calcio, una riduzione del neurotrasmettitore rilasciato e una conseguente riduzione dell'entità della reazione finale. Per cui, dopo che per più e più volte ci siamo spaventati all'abbaiare improvviso del cane del nostro vicino, dopo l'ennesima volta che prestiamo orecchio a tale sonorità il nostro cervello decide che non c'è più bisogno di spaventarsi perchè già conosce l'entità del rumore.
Come non rimanere, ancora una volta, affascinati dalla capacità che il cervello mette in campo a modulare sistematicamente il nostro approccio al mondo? Se l'esistenza scorre lasciando tracce più o meno profonde, il cervello è consapevole della necessità di applicare modifiche importanti alla nostra coscienza perchè si possa apprezzare al meglio l'evento che accade o per riconoscere specifici moduli di funzionamento attraverso le varie forme di neuroplasticità. Quasi il cervello volesse imporre al nostro subconscio la razionale ovvietà del trascorso temporale ma, sviluppando questa considerazione, agisce freneticamente perchè si possa apprendere il più possibile (con LTP), perchè ci si possa muovere nella certezza più sicura (con LTD) o perchè si possa rimanere impassibili davanti a certi eventi privi di valore (con l'abitudine, ma è bene che il cervello, senza richiamare in gioco la nostra volontà, trasformi in assuefatta scontatezza il trascorrere dei nostri giorni?...).
Se la nostra vita è in continuo divenire, allora anche il nostro approccio al reale deve essere così disposto ad un plastico rinnovamento! Non a caso parlo di  divenire: mi sto infatti rifacendo al logos filosofico del buon vecchio Eraclito.
Non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua di un fiume.
Asseriva così il filosofo greco, sottolineando l'importanza del fatto che ogni nostro istante non è mai uguale all’altro e noi non siamo mai gli stessi da un istante all’altro, da un tempo all’altro. Tutto cambia dentro e fuori di noi anche se non sempre riusciamo a percepire questo continuo cambiamento. La cosa più appariscente di noi, il nostro corpo, da un istante all’altro è sempre diverso e noi viviamo in questa continua diversità e di questa continua diversità. Siamo in continuo cambiamento: perdiamo cellule del nostro corpo, perdiamo ricordi sommersi da altri nel vuoto della nostra memoria, e gli stessi che crediamo di conservare sono diversi da un momento all’altro. Per quanto grande sia quello che noi chiamiamo memoria, essa non è mai capace di trattenere fermare per un attimo il nostro continuo divenire. Tutti gli eventi sono continuamente mutevoli come il paesaggio che ci corre via veloce da un finestrino di un treno e del quale ben poco riusciamo a trattenere.
In un contesto così sfuggevole, penso sia necessario non correre il rischio di 'lasciarsi scivolare addosso' lo sviluppo dell'esistenza solo perchè il tempo scorre e, inafferrabile, non potrà mai essere limitato. Se il nostro cervello risponde al variare dell'esistenza imponendo cambiamenti fisico chimici a livello sinaptico, perchè la nostra volontà coscienziale non può operare un'opera di apprezzamento del momento senza che la vita si dissolva senza lasciar traccia come il sogno più vago e indefinito possibile?

sabato 15 agosto 2015

Scegli sempre il cammino che sembra il migliore anche se sembra il più difficile. (Pitagora)

La realtà è spesso tanto ardua e complicata, difficile da affrontare e vincere.
Il nostro cervello, tuttavia, è in grado di organizzare la migliore strategia processuale per affrontare sereni e determinati qualsiasi sfida ci venga imposta giorno dopo giorno: ma quante soluzioni è in grado di creare? Se qualcosa va storto nel piano iniziale, è facile per i nostri intricati circuiti neurali dare vita ad un piano B oppure implica un dispendio energetico così elevato che richiede tempo e sforzi esagerati?
Ecco che un pool di ricercatori, coordinati da Carlo Reverberi, ricercatore del Dipartimento di Psicologia dell'Università di Milano-Bicocca (orgoglio personale), insieme a un team di studiosi della Princeton University, dell’Humboldt University e del Bernstein Center for Computational Neuroscience di Berlino ha trovato la risposta a tali quesiti con una ricerca apparsa sulla rivista Neuron, nell'edizione dell'aprile scorso in cui si va esplorando il processo attraverso il quale le persone, durante l’esecuzione di un compito, decidono autonomamente e senza suggerimenti di cambiare la strategia di esecuzione.
La ricerca rivela che il famigerato piano B nasce in una regione precisa del cervello, la corteccia prefrontale mediale, quando siamo ancora concentrati su un’altra strategia, già alcuni minuti prima che il cambio di piano avvenga davvero.
Fasi dello studio
Gli autori hanno studiato cosa accade nel nostro cervello nelle fasi antecedenti e successive alla scoperta di una nuova strategia. Sono stati coinvolti 36 volontari ai quali è stato richiesto di partecipare a un “gioco”, mentre l’attività del loro cervello era monitorata con risonanza magnetica funzionale.
I volontari dovevano rapidamente determinare la posizione di una nuvola di quadratini colorati che compariva su di uno schermo. Dovevano quindi comunicare la posizione della nuvola premendo il pulsante di sinistra se questa era più vicina agli angoli superiore destro o inferiore sinistro dello schermo, mentre dovevano premere il pulsante di destra se la nuvola compariva in uno degli altri due angoli.
Dopo circa dieci minuti dall’inizio del compito e all’insaputa dei volontari, i ricercatori inserivano una semplice associazione tra il colore della nuvola e la risposta corretta: se la nuvola era rossa, andava premuto il pulsante destro; se era verde il pulsante sinistro.
Questa nuova associazione, se notata, poteva permettere ai partecipanti di cambiare strategia sfruttando il colore al posto della posizione. Questo permetteva di risolvere il gioco in modo più semplice: il colore della nuvola di quadratini era infatti più facile da determinare rispetto alla sua posizione.
Risultato della ricerca.
Dopo un’ora di gioco, solo il 31 per cento dei partecipanti ha individuato e sfruttato l’associazione fra colore e risposta, mentre gli altri hanno continuato a rispondere usando la posizione. I ricercatori hanno scoperto che solo nei volontari che avrebbero poi cambiato strategia, la corteccia prefrontale mediale teneva traccia del colore dello stimolo. Non solo, i ricercatori hanno anche scoperto che quella regione cerebrale cominciava a tener traccia del colore dello stimolo alcuni minuti prima che i volontari effettivamente cambiassero strategia.
Questo segnale era così affidabile che i ricercatori hanno dimostrato come fosse possibile prevedere se uno specifico volontario avrebbe cambiato strategia o meno prima che ciò avvenisse effettivamente.
Lo studio ha quindi messo in rilievo la capacità del cervello di bilanciare al contempo due necessità: da un lato la necessità di focalizzare le nostre risorse sulla strategia corrente ignorando tutta l’informazione non rilevante, dall’altro l’opportunità di lasciare una porta aperta a nuove possibilità ancora ignote.
''Per portare a termine un lavoro – dichiara Carlo Reverberi - spesso focalizziamo al massimo la nostra attenzione su quanto stiamo facendo. In questo modo il nostro cervello tenta di filtrare la grande quantità di informazioni da cui siamo sempre circondati, dedicandosi all’elaborazione di ciò che riteniamo importante.
Ma filtrare troppo talvolta può anche produrre la perdita di informazioni preziose''.
''Questi risultati – aggiunge Reverberi – sono importanti per comprendere meglio il ruolo della corteccia prefrontale mediale nella cascata di eventi che portano a un cambio di strategia e, più in generale, a comprendere meglio il ruolo della corteccia prefrontale nel pensiero umano. I nostri risultati suggeriscono che questa regione simuli in background la strategia alternativa per valutarne l’appropriatezza, mentre il comportamento visibile è ancora determinato dalla strategia corrente''.
Ancora una volta, il cervello dimostra tutto il suo fascino in un'applicazione funzionale della quale siamo assolutamente inconsapevoli: in modo automatico infatti il piano B viene prodotto e rimane lì, pronto per essere sfruttato e usufruito al meglio.
Nasce così un forte collegamento con la filosofia, amorevole compagna di viaggio dei nostri giorni. La facoltà cerebrale di adottare  meccanismi di strategica scelta, differenti e modulabili secondo il contesto, non fanno altro che manifestare una grandiosa qualità del nostro essere: la capacità, cioè, di definirsi attraverso le proprie scelte. Ricalcando le orme che un gigante come S.Kierkegaard ha lasciato sul lastricato sentiero della storia, possiamo infatti definire l'identità di uomo nella sua scelta: quanto singolo, in quanto individuo, l'uomo diventa ciò che è come conseguenza delle sue scelte. Non esistono regole morali, è l'individuo che crea del tutto liberamente la sua etica ed è responsabile delle sue libere scelte e delle sue azioni. L'individuo non può, del resto, fare a meno di compiere scelte, perché anche non scegliere, nella concreta situazione dell'esistenza, è in realtà una scelta. Nonostante il filosofo danese trovi poi nel sentimento dell'angoscia il contrappasso a questa libertà, ritengo sia più utile godere della meravigliosa possibilità che ci è stata concessa e che viene magistralmente attuata dal nostro cervello.