martedì 31 dicembre 2019

La vita, palcoscenico dove giochi sul serio. (L. Pirandello)

È l’ultimo giorno dell’anno.
Puntualmente è il momento di quella sottospecie di rituale che prende le forme di ansiogene revisioni e speranzose promesse, personali propositi e ambiziosi giuramenti.
Una cornucopia di elenchi puntati sulle nostre note digitali e tante dita incrociate per quello che verrà.
Elenchi che trasudano aspettative, desideri profondi.

Se mi mettessi anche io ad enumerarvi i miei punti programmatici sarebbe troppo ovvio, scontato come il programma elettorale del più vecchio dei candidati.

Esame di stato a febbraio. 
Da superare.

Un lavoro temporaneo.
Da trovare.

Esame per l’ingresso in specializzazione. Luglio di fuoco.
Da superare.

Continuare con quel lavoretto fino a ottobre/novembre, periodo presunto di inizio specializzazione. 
Tassativo.

Trovare un buco per sopravvivere nella città che sarà il nuovo posto che chiamerò casa.
Il prima possibile.

Nel frattempo studia, studia forte non solo come preparazione ai test ma perché quando sarà quel primo giorno, quel fatidico primo giorno, voglio essere pronto.
Necessario.

È un indice di eventi che inevitabilmente scandiranno un anno ricco, come pregnante è stato l’anno che mi lascio alle spalle con quella corona d’alloro appesa in camera a ricordarmi come un monito sempre vivo, il traguardo che ha sancito la partenza di un nuovo capitolo.

Quello su cui però vorrei soffermarmi non è tanto questo insieme di situazioni, quanto piuttosto ciò che questo scatena.
Impetuosamente.
Vertiginosamente.
Meravigliosamente.

Inquietudine frammista a necessità. 
Bisogno di scoprirsi davvero.

Non fraintendetemi e non partiamo spaventati o terrorizzati per quello che verrà delineato.
Si, l'inquietudine è la condizione, che più di tutte in questi casi, si traduce in un senso di puro disorientamento, quella sensazione che ci mette in guardia sullo stato di stabilità, o instabilità, del nostro disagio e ci fa andare alla ricerca di un nuovo orientamento. 
Il disorientamento è una macchina generatrice, dalla quale originano improvvisamente riflessioni sulle decisioni da prendere nella vita.
Nuove situazioni, nuovi problemi e nuove realtà mantengono l'orientamento in un'inquietudine costante. 
Per questo l'inquietudine è l'atmosfera di base dell'orientamento, il cardine fermo della scelta.

Chi mi conosce bene, sa che programmare, stabilire in maniera ferma e indissolubile i singoli passi da percorrere, scegliere minuziosamente i pezzi che possano combaciare nell’intricato puzzle della quotidianità, definisce al meglio il mio personalissimo disturbo ossessivo.
Limato con anni di sorprese e puzzle non perfetti, questo mio atteggiamento totalitaristico verso la programmazione è andato via via modellandosi ad un approccio più realistico. Tuttavia, non posso prescindere dall’organizzare e vedere come tutto potrebbe non collimare con le aspettative: non è facile, mi disorienta. 
Sguardo inquieto verso l'orizzonte, mai
come limite ma come vivida opportunità
Completamente.

Se, come in questo anno che verrà, le situazioni non sono né prevedibili né calcolabili al 100% come invece poteva essere nei precedenti 25 anni, ecco ritornare prepotentemente l’inquietudine intorno alla domanda se ci si è orientati correttamente prendendo decisioni giuste; l'inquietudine può trasformarsi in paura di non aver preso la decisione opportuna. E la paura può degenerare, in casi estremi, in disperazione se il dubbio nei confronti delle proprie possibilità d'azione paralizza l'azione stessa. 

Si ma che quadro apocalittico, meno male dovremmo iniziare l’anno nuovo con una buona dose di speranza e desiderio di affrontare qualunque sfida!

E in effetti, l’inquietudine non è solo quello. Sta a ciascuno di noi direzionare con forza e vigore il senso di questa dispensatrice di stimoli.

Ho scoperto, con mio sommo piacere e grazie a un’amica pensatrice, che le parole di Heidegger in questo caso concentrano appieno questo vorticoso flusso di pensieri: era infatti solito dire che l’inquietudine è l’origine di tutto, da cui nessuno di noi può prescindere e che è necessario come rumore di fondo, come compagno indivisibile della nostra quotidianità. 
Da qui quindi due importanti concetti, tra loro concatenati.

Rileggiamo.
Respiriamo.
Viviamo.

Sul fondo dell'animo vibra un senso continuo di insoddisfazione, una specie di soglia di inquietudine: finché questa rimane a un livello basso, è tollerabile e persino positiva, giacché costituisce una molla all'azione e al mutamento e se possibile al miglioramento delle proprie condizioni. Quando però il livello dell'inquietudine sale troppo in alto, provoca una situazione di malessere che può trasformarsi in dolore intenso. 
Come quindi essere in grado di schermare tale forza primordiale?

Io credo, anzi, ne sono convinto, che la risposta sia antagonizzando uno dei cardini del pensiero pirandelliano.

Ripensiamo a chi siamo. 

L’essere umano non sa quasi mai cos’è! Se io chiedessi a qualcuno, così, di punto in bianco “Chi sei? Cosa ti inquieta?”, sono sicuro che difficilmente troverei un’anima così sicura di sé, ma perché l’inquietudine, il dubbio generato da quello che ci circonda, spesso soverchia il nostro essere e ci obbliga a vestire delle maschere.

Ecco, vi dicevo di Pirandello.
E di come un umile dissenso alla sua teoria delle maschere possa garantirci forse una visione ottimistica dell’inquietudine.

Indossare una maschera, una seconda pelle è nascondere agli altri e a sè stessi il vero io. È come un velo di Maya che non consente di conoscere la propria personalità. Nella realtà quotidiana gli individui non si mostrano mai per quello che sono, ma assumono una maschera che li rende personaggi e non li rivela come persone. La maschera non è che simbolo alienante, indice della spersonalizzazione e della frantumazione dell'io in identità molteplici, e una forma di adattamento in relazione al contesto e alla situazione sociale in cui si produce un determinato evento.

Ma se osassimo togliere questa maschera?
Se davvero affrontassimo con coraggio le nostre scelte, in quel mare magno di disorientamento che un nuovo anno può portare con sé?
Sono fermamente convinto che se adottassimo questa intrepida iniziativa, l’inquietudine di cui sopra, madre delle più ansiogene delle paure può in realta tramutarsi in un’amorevole genitrice della spinta più sincera a crearsi il proprio domani.

Pensateci un attimo.
Trova quel pertugio, per essere te stesso e
liberarti dalla maschera
Se ognuno di noi vivesse davvero appieno quello che l’oggi regala gratuitamente, senza aspettarsi nulla in cambio, togliendo qualsiasi schermo che filtra il nostro essere, non riusciremmo a vedere l’inquietudine che smuove l’ordinario come la forza motrice per un quotidiano straordinario?

Forse è troppo.
Ed è solo un pensiero di un vanesio che straparla.

O forse no.
È il necessario bisogno, una primordiale necessità.

“Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?”
(L. Pirandello)

Superiamo il limite che l’inquietudine figlia della novità può imporci, attraverso il coraggioso dispiegarsi del nostro vero essere, della rivelazione della nostra anima, lontana dalle esigenze di mascherarsi e nascondersi come il mondo oggi ci fa credere sia fondamentale.

È forse questo l’augurio più sincero che mi impongo per questo 2020 carico di misteriosi punti interrogativi e altrettante meravigliose scoperte da condurre tra le pieghe del tempo e dello spazio. 

Ed è l’augurio che voglio rivolgere a te, che con estremo coraggio e ardita follia, ti sei lasciato trasportare da questo fiume in piena che è la mia coscienza tradotta a parole.
È l’augurio che durante quest’anno tu possa riscoprirti come davvero te, sicuramente attraverso il raggiungimento di numerosi obiettivi, ma soprattutto tramite il coraggio di dedicarti del tempo per conoscerti, per indagare a fondo nella bellezza della tua anima e scorgere laggiù in fondo il tuo vero io.

martedì 24 dicembre 2019

Il pezzo di carta e una linfoadenectomia inguinale.

Un timido raggio fa capolino attraverso gli sporchi vetri di un treno che taglia la pianura con noncuranza della vita che gli scorre vicino.

Oggi è un giorno strano, diverso. Non sono andato in ospedale ma alla cerimonia di consegna dei diplomi di laurea che la mia università organizza annualmente.

La solita baggianata istituzionale, potranno pensare in tanti.
Ma io credo in qualcosa d'altro. L'ho vissuto piuttosto come un momento per riflettere davvero su quello che è successo qualche mese fa e ora è scritto in bella grafia su una pergamena che sa di antico.
Forse sono solo io che ho sensazioni un po' strambe.

Però ehi, sono rinvigorenti: perché non lasciarsi cavalcare da questa ondata di entusiasmo?

Il tutto per un pezzo di carta? Beh, cambierei articolo: IL pezzo di carta.
Quel pezzo di carta che significa sei anni di sveglia alle 5.30 e rientro quando compariva magicamente il treno o finiva l’attività, quel pezzo di carta che assume le forme dei tomi che mi hanno provocato qualche indigestione e altrettante soddisfazioni, quel pezzo di carta che nasconde tra le righe legami di sincera amicizia che non tutti hanno la fortuna di creare, di vivere.

Quel pezzo di carta..

Mentre scrivo e forse acquisisco sempre più quello che questo 2019 mi ha regalato, non posso non pensare a ieri e che forse rende giustizia e fa assumere a quel pezzo di carta un valore aggiunto.

Una giornata dai contorni dell’assurdo: iniziata alle 06:51 e conclusa alle 22:23.
Una giornata contraddistinta dall’ansia, dalla soddisfazione, dall’ansia, dall’ansia e dalla serenità.

Si ma ancora chirurgia generale?
Ebbene si, per questo mese di frequenza per i tirocini dell’esame di stato dovete sorbirvi qualche escursione in un mondo diverso da curiosi sintomi neurologici e altrettanto indaginosi interventi sul cervello. 
E’ tuttavia un mondo che lascia a suo modo senza parole, se uno ha il coraggio di lasciarsi affascinare. 
Parlo di coraggio, non a caso perché sto vivendo un assaggio del significato del termine 'chirurgo', di cosa si nasconde dietro quella divisa-pigiamino: un impalpabile figura forgiata dal coraggio più puro, che spero un giorno non lontano farà rima
con il mio futuro.
E’ un coraggio quasi incosciente, quello di trascorrere una media di 12-13 ore al giorno in un contesto, quello ospedaliero, che risucchia progressivamente le tue energie, ti sfianca ma d’altro canto ti dona tutto. 

Anche da semplice tirocinante, ne ho avuto un assaggio.
Uno di quegli assaggi che vorresti si tramutasse al più presto in un piatto succulento.
Un assaggio che ha il sapore di quella che tanti potrebbero etichettare come banale linfoadenectomia inguinale, per passare al piatto principale sotto le sembianze di un trapianto bipolmonare e per finire un intervento in urgenza, di quelli che fanno paura solo a sentirne parlare.

Vi chiedo scusa, quando ripercorro gli spezzoni di eventi così, non riesco a frenarmi, non voglio frenarmi: vuoi solo scrivere, spezzare i lucchetti che intrappolano malamente i pensieri, dando così loro una vita.
Un libero pensare tradotto a parole.

Ora vi racconto, con calma.
Forse.

La mia giornata è iniziata la sera precedente quando la strutturata di turno mi chiama al telefono per avvisarmi che mi aveva segnato nell’equipe dell’attività operatoria dell’indomani, causa mancanza di specializzandi.

Ok, ora immaginate un Sergio spaventato ed entusiasta allo stesso tempo: intervallavo momenti di lucida ansia dipinti da un continuo leitmotiv ‘ma che mi fanno lavare che io metto punti alle banane e ai mandarini?’ a sensazioni di esaltata gioia per cui ‘prendi al volo queste occasioni, che sono solo ora che cola!’
Un bipolarismo non piacevole che mi ha accompagnato involontariamente (o forse no?) per tutta la notte.

Una notte rapida perché la sveglia suona presto, che per l’attività operatoria devi essere pronto per le 7.30 in sala: pronti e via, cuffietta e mascherina indossata, sono pronto!

Il primo intervento è una linfoadenectomia inguinale per una sospetta recidiva di linfoma B follicolare. Chi è già stato in una sala operatoria di chirurgia generale, concorderà con me la benchè minima assenza di eccitazione in un intervento della durata massima di 20 minuti, rapido, indolore e tecnicamente facile.
Ok, aspiro, traziono, taglio, un punto qui, uno là: finito. 

Se è una giornata così posso sopravvivere dai. 
Sarà una giornata scandita da 20 minuti di lavoro: si va a casa presto suvvia.

Povero illuso.

Secondo intervento, indovinate un po'? 
Si, ci avete azzeccato: linfoadenectomia inguinale destra.
Mi preparo e mi metto sul lato controlaterale della sede dell’intervento così il primo operatore può lavorare indisturbato sul lato giusto. Peccato che appena arrivata la strutturata, si mette a sinistra e mi affianca. C’è qualcosa che mi sfugge, la guardo, mi guarda e un po' spazientita mi fa: ‘Che problema c’è? La prima volta guardi, la seconda lo fai! Su vai al lato giusto e togli quel linfondo.’

Ah, ok.
Da solo.
Un intervento chirurgico.
In un’area anatomica in cui comunque passano i vasi femorali, non proprio i capillari del mignolo del piede.
Ok, respira, focalizza e ripercorri mentalmente cosa hai visto prima: incidi, coagula, scolla, isola, lega, seziona, asporta, lava, controlla l'emostasi, sutura per piani.
Si, si può fare.

‘Bisturi, per favore’.

Si comincia.
Ok, non ci ho impiegato i canonici 20 minuti (anzi!) però posso assicurarvi che quella sensazione di operare, seppur un semplice linfonodo, ha assunto i connotati dell’ulteriore conferma che la sala operatoria è dove voglio stare.
Niente scuse, nessun ripensamento.
E’ così, senza ombra di dubbio.

Dopo il secondo linfonodo ho assistito ad altri interventi minori (ernioplastiche inguinali e crurali, fino all’ora di pranzo circa).
Bene, siamo sotto le feste e hanno a disposizione la sala operatoria solo per mezza giornata: il mio l’ho fatto. Grazie a tutti, buon pomeriggio.

Ah, l’illuso. L’avevo già detto?

Eccoli arrivare a velocità sostenuta e con fare incalzante i due chirurghi che erano stati chiamati da un ospedale del centro Italia per recuperare i polmoni da un donatore che risultavano essere perfetti per un paziente ricoverato per una fibrosi polmonare idiopatica. 
Volete non assistere a un trapianto bipolmonare?

Rapidamente si va in H24, la sala operatoria che non dorme mai, il regno dove Morfeo non osa avvicinarsi ed ecco, in quattro e quattr’otto mi ritrovo ancora lavato: fai da secondo su un trapianto? Eh..manca chi può aiutare.
Pronti e via, un tour de force di 9 ore circa suddiviso nei due tempi chirurgici dell’intervento (espianto-impianto), la cui nota da ricordare è forse stata quel ‘Su Capelli, tienimi il cuore e giramelo bene perché devo isolare arteria e vena polmonare, ma non stringerlo troppo forte e non fargli venire aritmie fatali, eh.’
Ah, tenere un cuore in mano. 

Io non so più come dirvelo, se non che adesso mentre lo scrivo e ripercorro quegli attimi, sento quel brivido, quella sensazione che sono certo anche voi avete la fortuna di provare quando si tratta di un’emozione intensa, quel genere di fremito involontario ma altrettanto ben gradito.

Il trapianto è complesso e richiede il coinvolgimento del primario che, al pari di un’evocazione, compare in un’aura quasi magica tratteggiata da quell’esperienza di chi ne ha viste proprio tante. Mi faccio umilmente da parte e osservo.

Si, più che osservare, rimango in trance.
Il movimento di quelle mani che dolcemente ma con ferma decisione, sanno dove andare, cosa legare, sezionare, quali strutture unire tramite anastomosi perfette.

E il tempo vola e viene messo l’ultimo punto di cute: nel mentre l’esecuzione di un miracolo, che prende le forme di un trapianto.
Basta, direi che per una giornata è troppo già così.
Troppi stimoli, troppi eventi da metabolizzare.

Si, credici.
Bimbo di 11 mesi, paziente del prof trapiantato di fegato con una perforazione in atto.
E’ da operare d’urgenza! Bisogna scoprire cosa è coinvolto e bloccare il problema sul nascere.
Quindi, quale migliore occasione per lavarsi e fare da assistente al primario?

Si, ho scritto bene. Lo strutturato, con serenità disarmante, mi spinge a operare con il primario ‘tanto fa tutto lui, chiunque può andare con lui, forza vai tu’.
Ah, vabbè, dovrò svolgere l’abile arte del divaricatore umano: posso farcela.
E così è: si, per i primi 5 minuti quando poi decide di mettere i divaricatori autostatici. Ok, guarderò da un posto privilegiato un intervento del primario. 

Devo smettere di farmi strane idee e illudermi.
Ogni. 
Maledetta.
Volta.

‘Guarda sembra sia colpa del duodeno! Ti va di cominciare a mettere tu i punti e provare a chiudere?’ Alzo lo sguardo e vedo che mi sta porgendo porta aghi con il punto montato e pinza anatomica. Con mano tremante mi avvicino alla lesione sulla superficie del duodeno e provo a far passare il punto, ma sembra che il tessuto non tenga. Ha una consistenza strana, i punti affondano senza però tenere una volta che provo a chiudere. 
‘E’ normale, questo duodeno è fatto così: riprovaci’.

Ci riprovo, forse due saranno rimasti al loro posto. Con gli altri tentativi mi sembrava solo di aver peggiorato le cose. ‘Ok dai, è un buon inizio, vado avanti io e tu stammi dietro’.
Una parola.
Rapidamente chiude la lesione, l’emostasi è ben controllata. Si può richiudere con serenità.

Mi svesto. Saluto il personale di sala. Vado nello spogliatoio.
Mi siedo, finalmente.
Sorrido come un ebete.

A distanza anche solo di un giorno, quel pezzo di carta è davvero manifesto di qualcosa di grande.
È prova scritta di un percorso in divenire, di una scelta che volontariamente sto facendo giorno dopo giorno. 
È qualcosa che dà idea di chi sono e chi voglio essere, nero su bianco, tramite parole scritte, le mie amiche preferite.

Il treno è arrivato in stazione. Fa freddo e piove.
Ma continuo a sorridere.

martedì 10 dicembre 2019

Prenditi il diritto di sorprenderti. (M. Kundera)

Oggi, a quasi 24 ore di distanza, ho solo bisogno di condividere, di condividere con tutti voi la notte tra il 9 e il 10 dicembre scorsi.

Una notte costellata da pianti sinceri e sorrisi velati.
Una notte scandita dal bip di un respiratore e dall'acre e pungente odore di un bisturi elettrico.
Una notte di verde tinta, dalle divise agli occhi ripieni di speranza degli operatori.

La notte del mio primo espianto di organi.

Da inizio mese sto frequentando l'Unita di Chirurgia Generale e dei Trapianti addominali presso l'Ospedale di Bergamo, la mia cara terra natia, per i tirocini pre-esame di stato.
Un dovere tanto scontato quasi inizialmente affrontato, vi confesso, non con grande entusiasmo.
Si, è sempre una branca chirurgica in cui non si trascorre la giornata a aspettare che l'antibiotico faccia effetto (non me ne vogliano i cari infettivologi!) ma anzi, con un certo ritmo e un'altrettanta dinamicità si alternano interventi di tutti le forme e colori: ernie, colecistectomie, emorroidi, qualche volta un epatectomia o una dcp, interventi in laparoscopica..ho detto ernie?
Interventi che proprio non si avvicinano alla delicatezza di un'asportazione di un tumore cerebrale o alla concitata evacuazione di un ematoma subdurale acuto!
Poi dai, la clinica non è minimamente comparabile a quella neurologica: meno intrigante e altrettanto poco curiosa!

No no, non fa per me. Dicevo una settimana fa.
Illuso, dico ora.

Non preoccupatevi, la neurochirurgia non si tocca: il primo amore è inarrivabile.
Ma, nessuno ci vieta di provare emozioni forti, credo infatti sia necessario riservarsi il diritto di sorprenderci, di apprezzare qualcosa di nuovo, di ricrederci.
Sempre, indipendentemente dagli stimoli esterni o da quello che può farci credere la gente.

Ma torniamo a quel ricordo.
E a quel messaggio su whatsapp: 'Sala, 21.30. A dopo.'
Senza bisogno di sprecare parole, chiaro, conciso, chirurgico (appunto!).
Quella giornata avevo avuto il sentore che sarebbe successo qualcosa: accennavano a una disgrazia accaduta a una giovane mamma che se, ritenuta idonea, sarebbe stata la candidata ideale per un espianto multiorgano data la sua anamnesi patologica completamente muta.
E quindi quel messaggio nascondeva tra le righe il senso vero della chiamata: sarei dovuto andare in sala a guardare l'espianto dalla magnifica panoramica del mio solito angolino.
Si, qualcosa di nuovo certo ma il primo pensiero dopo una giornata passata tra medicazioni VAC, giro  in reparto, compilazione di diari clinici e lettere di dimissioni, è dormire. Semplicemente.
Si, non nego di essere anche io un grande amante del piumone.

Ma un impegno è un impegno, forza e coraggio: copriamoci bene e usciamo.
Freddo, quel freddo che ti penetra dentro e che ancora una volta ti ricorda dove saresti stato meglio.

Cerco di non farci caso e rapidamente arrivo in ospedale, quasi lugubre a quell'ora.
Con passo svelto mi preparo e vado in sala operatoria dove ad attendermi c'è la specializzanda di turno che, con la solita buona volontà (Dio benedica sempre gli specializzandi!), mi descrive come e cosa avverrà di lì a poco tempo, di come in un battibaleno un turbinio di persone, di mani affaccendate occuperanno la sala operatoria.
Ed infatti, ho dovuto aspettare pochi minuti per vedere la sala stracolma di figure, dagli accenti più disparati provenienti dagli antipodi della nostra Penisola! Ottimo, non riuscirò a vedere nulla manco dal mio angolino, si questo è stato il mio pensiero.

Triste e banale direte voi, sincero dico io.
Sciocco, aggiungo io. A posteriori.

Tra la nostra equipe per l'espianto di fegato, pancreas e reni, quella per il cuore, quella per i polmoni oltre che al personale di sala saremo stati 13/14 persone! Tutti dediti al loro compito, tutti a lavorare in concerto per garantire l'esecuzione di una sinfonia perfetta. Solo vedere tutti questi professionisti che hanno deciso di rinunciare a una banale notte di sonno per poter dare una speranza di vita migliore ad almeno 6 persone (in base agli organi espiantati), mi fa abbandonare quel sentimento di inedia che mi aveva accompagnato fin dentro quella stanza piastrellata.
Tempo di trovare un pertugio per poter ammirare estasiato il lavoro iniziale dei cardiochirurghi che.. 'Ehi tu!' - al che io mi giro guardando se ci fosse qualcuno dietro di me -
'Dice a me dottoressa?'
'E certo! A chi altro? Su forza vai a lavarti, non ti ho mica chiamato per fare lo spettatore al cinema!'

Ah, ok.
Vorrà farmi vedere dalla prima fila e non dalla balconata.
Gentile.

Mi lavo, mi vesto (e puntualmente mi sento in imbarazzo quando l'esperta ferrista, con la voce di chi ne ha viste tante e ne ha affrontate altrettante, si rivolge a me 'lei dottore, mi scusi, che taglia per i guanti?'..quanto ci vuole per abituarsi: chiedo aiuto agli esperti!) e mi avvicino al tavolo operatorio.
I cardiochirurghi hanno aperto il torace e hanno fatto una prima ispezione, confermando quanto evidenziava la TC totalbody eseguita precedentemente per cui non si evince alcun segno di patologia.
Ora tocca a noi, cioè a loro: specializzanda e strutturata che devono fare la medesima valutazione a livello addominale.
Io, braccia conserte, e guardo.
La giovane specializzanda inizia a fare l'incisione e la strutturata incrocia il mio sguardo: 'Embè, non la assisti? Su chiedi alla ferrista cosa ti serve e lavora.'

Spronato a prendere parte a qualcosa di grande, entro in modalità battaglia.
Chiedo una pinza e l'aspiratore.
Erano le 22:15

Metto l'ultimo punto per chiudere la cute, alzo gli occhi, ho davanti un orologio gigante.
02:45

Ah, quattro ore e mezza in trance. Chi sente più il sonno, la stanchezza?
Non io. Non in quel momento.

Vi mentirei se ora mi dilungassi a raccontarvi filo per filo l'esecuzione dell'intervento.
I singoli dettagli tecnici ora sono immersi in un nebuloso ricordo che sa di miracolo.
E' stato tutto così concitato e bellissimo.

Ma anche immensamente triste e buio.
Riflettete un attimo: una mamma attraversa le strisce e viene investita mentre passeggia con il figlio di 6 anni.
Cosa ci può essere di più odiosamente straziante di una vita spezzata così?

Forse l'unica panacea è capire il senso profondo di quello a cui ho avuto l'onore di partecipare.
Non voglio dilungarmi in elucubrazioni sull'etica della donazione degli organi, non è questo il posto né il momento.
Posso dirvi questo però. Si, sinceramente posso confessarvi che vedere un cuore battere, incanulato per essere perfuso con una soluzione ad hoc potendo così clampare i grossi vasi, sezionarli con buon margine, asportarlo dalla cassa toracica, sapendo che potrà ridare vita ad un altro essere umano è un'emozione che a parole non si descrive. E lo stesso per gli altri organi, riconoscere le strutture vitali, vascolari e non, che devono essere isolate perchè si possano asportare con il pezzo.

Riconosci, isola, lega, seziona.
Riconosci, isola, lega, seziona..

Movimenti che diventano automatici, una ripetitività che ha il sapore di speranza.
Assume i connotati del dono più grande che un essere umano, anche al termine improvviso della sua esistenza, può elargire a chiunque ne abbia bisogno.
Non scontato e altrettanto meraviglioso.
Dopo sei anni di studi e tirocini talvolta affrontati con leggerezza, questa notte ho avuto la lezione più vera che tutti questi anni non hanno potuto darmi.

Ricordarsi sempre di rinnovare il diritto di sorprendersi, di assaporare la portata monumentale del miracolo del dono, del valore di una vita.
Io l'ho fatto la notte scorsa.
E non me lo dimenticherò facilmente.

domenica 17 novembre 2019

Le grandi cose sono spesso più facili di quanto si pensi. (Voltaire)

Se facessi un sondaggio in una qualsiasi popolazione, sono certo che alla domanda 'come vi immaginate la chirurgia?' una buona parte risponderebbe convinto raccontandomi le gesta dei Derek Sheperd e Meredith Grey del caso, sottolineando come in ambito chirurgico si svolgano solo ed esclusivamente formidabili interventi, sempre identificabili all'interno degli annali di storia della chirurgia, pronti a rimodellare il significato stesso della professione. 
Forse sarebbe la carta vincente da utilizzare ad un evento promozionale.
Una fetta altrettanto numerosa rappresenterebbe l'ala degli scettici, di chi vede nella chirurgia una pratica monotona e barbara.
E quindi partirebbe uno scontro infinito.

Ma non siamo qui per questo. 

Siamo qui per mettere a nudo il puro significato della chirurgia, in particolare della neurochirurgia, forse la più nobile tra tutte (chiedo venia a tutte le Cristina Yang che credono che tale primato spetti alla cardiochirurgia) che nella sua aura di mistica complessità, è talvolta lineare nel trattamento e nella risoluzione di patologie. 
Come quella volta con l'ascesso cerebrale. 
Quella volta che in una routinaria domenica d'ottobre, in PS arrivò un paziente che era stato operato per asportazione di meningioma l'agosto precedente. Lamentava saltuarie crisi motorie parziali all'emisoma sinistro, senza l'associazione ad alti segni/sintomi neurologici. Negava inoltre storia di traumi, i suoi parametri vitali erano nella norma inclusa la temperatura corporea.
Ancora mi ricordo lo sguardo dello strutturato che stavo seguendo, lo sguardo di chi ne ha visti a centinaia di casi simili, lo sguardo di chi sa che un tumore non si riforma in tempi così brevi e che quindi può escluderlo rapidamente dalla diagnosi differenziale, lo sguardo di chi conosce a occhi chiusi l'algoritmo decisionale in situazioni del genere.
Per cui, pronti e via! 
Bando alle ciance: mentre si prende visione degli esami ematochimici in cui si evince un importante leucocitosi e una PCR alle stelle (segni di un processo infiammatorio in atto), ma ancora senza temperatura, il paziente viene inviato a fare una TC encefalo, ormai indispensabile nella medicina moderna per poter aver la certezza di riconoscere e localizzare la lesione da trattare. 
Ed eccolo lì: un incremento dell'edema della sostanza bianca parietale destra, in adiacenza alla pregressa cavità chirurgica, con lieve shift verso sinistra del setto pellucido e impregnazione contrastografica della cavità chirurgica, in prima ipotesi di significato flogistico. 
Banale potrete dire voi, grazie a Dio può dire il paziente! 
La causa del disturbo motorio che caratterizzava le sue giornate era la presenza di quello che sembrava un ascesso cerebrale, in prossimità della regione sede del meningioma asportato precedentemente.
Ottimo, direte voi, possiamo ricoverare con calma il paziente e sottoporlo all'intervento nei prossimi giorni, è anche domenica! Che fretta c'è?! La neurochirurgia è noiosa, dicono tanto che l'urgenza sia uno degli elementi caratterizzanti e poi, ricoverano e aspettano?

Calma calma, non scaldiamoci e facciamo un passo indietro.

Rileggiamo il referto della TC encefalo e guardiamo queste scansioni (recuperate da un caso simile, Cano Sierra et al. Teeth infettino may shunt through Fontan in high-altitude conditions. Ann Transl Med. 2018; 6)7):118)


Lo shift! Il vero nemico del neurochirurgo?
Si, un ascesso perde in partenza. E' un nemico piuttosto limitato da combattere e sconfiggere; però, come tutte le lesioni intracraniche ha nella sua faretra, una freccia piuttosto avvelenata: provocare un aumento della pressione endocranica. Il cranio non è come l'addome, è un contenitore incomprimibile, perciò quando una qualsiasi lesione espansiva si fa spazio all'interno della scatola cranica il rischio che eserciti un effetto massa, evidenziabile clinicamente con segni neurologici e all'imaging con uno shift (uno spostamento) delle strutture della linea mediana, è dietro l'angolo, proprio come nel nostro caso.
Per cui, non c'è un attimo da perdere! Si, non abbiamo ancora uno shift importante dal punto di vista dimensionale e non abbiamo ancora pupille miotiche. Giusto, ma non dobbiamo stare qui a aspettare che accada qualcosa di irrisolvibile! Ecco quindi che viene presa la decisione: non possiamo aspettare che la terapia antibiotica empirica contro gli ascessi cerebrali faccia effetto, dobbiamo portare il paziente in sala operatoria!
Seguo fremente lo strutturato fino a quelle quattro mura piastrellate, quello spazio in cui il tempo si ferma, e tutto va alla velocità impostata dai gesti fluidi e dinamici del chirurgo..

Ma torniamo a noi, al nostro paziente e al nostro ascesso.
Paziente sedato e intubato, è pronto per l'incisione!
E' supino con la spalla destra sollevata e il capo ruotato verso sinistra. Dopo accurata disinfezione cutanea con Betadine e anestesia locale, viene riaperta la cicatrice pronto-temporale destra, ricordo dell'asportazione di quel meningioma.
Ed eccolo lì, emergere già prepotentemente: dal margine della craniotomia si evidenza infatti fuoriuscita di materiale purulento. Viene perciò rimosso l'opercolo osseo che viene conservato in soluzione fisiologica e antibiotica (clindamicina). Prima di accedere al cervello tramite incisione durale, viene asportata la componente purulenta extradurale e inviata per esame colturale perché si possa impostare una terapia antibiotica mirata nel post-operatorio a seconda del germe responsabile. Anche la plastica durale inserita nel precedente intervento è completamente contaminata: asportata e anch'essa invita per indagini microbiologiche approfondite.

Respiro.
Un primo tempo è andato. Sgranchiamoci un attimo.
Non io, sono troppo impiantato a terra: ogni volta che si apre la dura e si scorgono le circonvoluzioni cerebrali mi paralizzo. Ma non per timore o che, perché è meraviglioso: avere presente gli occhi a cuore dei manga giapponesi? Uguale.

Torniamo al nostro intervento. Aperta la dura madre, si riconosce una reazione flogistico-infettiva a livello del pregresso focolaio chirurgico coinvolgente l'aracnoide, sovrastante il parenchima cerebrale adiacente. Perciò, tramite dissezione smussa si rimuove il tessuto infetto che viene inviato per l'esame colturale. Effettuati numerosi lavaggi con soluzione fisiologica anche nello spazio sottodurale, si verifica con ecografia intraoperatoria (se non ne avete mai sentito parlare, pazientate che vi racconterò in una prossima puntata) la regione che non mostra complicanze a livello della cavità chirurgica né presenza di ulteriori raccolte sospette.
Prima della chiusura e riapposizione dell'opercolo osseo, si può dimostrare una netta riduzione della tensione del parenchima cerebrale rispetto all'apertura, segno che le strutture cerebrali stanno riacquisendo la loro fisiologica posizione e il pericolo erniazione brain shift correlato è scampato!
Abbiamo vinto!

Ma la vera e definitiva vittoria, si ha al risveglio quando il paziente non mostra più nelle ore post-operatorie alcuna crisi motoria parziale.

E' così. Anche quello che poteva sembrare un banale intervento di routine si è trasformato nella risoluzione concreta ed effettiva del problema.
La neurochirurgia, spesso, garantisce questo.
Ed è forse questo che da qualche anno a questa parte mi entusiasma tanto: permettere in numerose occasioni di risolvere subito il problema senza aspettare, senza incrociare le dita che una terapia endovena funzioni.
E' questa una delle tante qualità di questa branca medica.
E poi, diciamocelo, se anche voi poteste vedere anche solo una circonvoluzione cerebrale dopo una craniotomia, non vorreste vedere altro.

Fidatevi di me.


lunedì 4 novembre 2019

Stupirsi rende la vita degna di essere vissuta. (O.Wilde)

Si pensa spesso che la medicina sia delineata da dogmi, verità imprescindibili dalle quali difficilmente si può trascendere.
Pensare quindi di prevaricare questi limiti può apparire strano.
Folle.
Geniale.

Forse una delle definizioni moderne di assioma in ambito medico è l'utilizzo dell'anestesia in qualsiasi intervento chirurgico, che permette al chirurgo di agire in completa sicurezza e altrettanta libertà di movimento, mentre il collega anestesista si preoccupa del mantenimento dei parametri vitali.

Ma se vi dicessi che questa realtà indiscutibile è assolutamente reversibile?!

E' passato del tempo da quando ne ho avuto la prova.
Ma ancora oggi, mentre ripercorro con la mente quel giorno, mentre ne scrivo, è un turbinio di emozioni: pelle d'oca, batticuore, qualcosa d'indescrivibile.

Sto parlando della magia (si ragazzi, è proprio una vera e proprio magia!) dell'awake surgery.
Si tratta di un approccio chirurgico che si pone come valida alternativa nel trattamento di tumori cerebrali, soprattutto per quelli a basso grado: in questa situazione la notevole differenza rispetto all'usuale tecnica è che il paziente viene svegliato durante l'esecuzione dell'intervento stesso.

No, non ho sbagliato a scrivere: viene SVEGLIATO!
La prima volta che me ne hanno parlato pensavo mi stessero prendendo in giro!
E invece no.

Fantascientifico ma altrettanto reale.

Scansione di RM, rappresentante un caso analogo pubblicato
su Journal of Neurosurgery (Sollmann, N. et al, 118 - 2013). 
L'indicazione per l'effettuazione di tale intervento è che la lesione vada a coinvolgere aree definite eloquenti, ossia deputate al controllo di importanti funzioni come il movimento volontario e la produzione/comprensione del linguaggio. 
L'obiettivo, essendo spesso una lesione a basso grado, è proprio quello di massimizzare l'asportazione, cercando di estirpare tutta la massa senza ovviamente lasciare reliquati o deficit neurologici al paziente. Non si configura perciò come nelle lesioni a alto grado che, con l'approccio della gross total resection, richiedono un'asportazione il più ampia possibile per rallentare l'evoluzione della malattia.

La localizzazione però è spesso insidiosa, come nel caso che vi riporto: un uomo con lesione in sede fronto-opercolare sinistra con evidente coinvolgimento delle aree del linguaggio.
Ecco quindi che l'approccio awake è inevitabile per garantire un miglior risultato chirurgico.

La sala quel giorno era stracolma.
Saettavano occhi carichi di ansia mista a trepidazione, a testimonianza della consapevolezza che stava per accadere qualcosa di unico.
Infermieri fibrillanti per la nuova disposizione dei vari strumenti.
Neuropsicologhe pronte a testare intraoperatoriarmente la persistenza delle funzionalità neurologiche di base.
Anestesisti più preoccupati che emozionati, perché se 'se non si sveglia prontamente è colpa mia!'
Chirurghi carichi come non mai, pronti a dare uno spettacolo memorabile.

Tutto pronto. Tutti ai blocchi di partenza. Via!

Il paziente è completamente sedato, intubato.
Con abilità forgiata dall'esperienza,  i chirurghi operatori cominciano a incidere la cute, dopo aver identificato con precisione la sede del tumore grazie all'ausilio del neuronavigatore, e arrivano rapidamente alla superficie ossea del cranio.
Mano al craniotomo e in men che non si dica, è già stato messo a nudo il cervello rivestito dalla sola dura madre.

A questo punto, si erge imperiosa la voce dell'operatore che con un emozionato 'sveglialo!', avvisa l'anestesista che deve ridurre progressivamente la profondità dell'anestesia per riportare il paziente a uno stato di coscienza basale.

'Bentornato!'

Chi? Cosa?

Farfugliamenti incomprensibili.

'Non ti muovere Giacomino (sarà il nome fittizio del pz), ricordati che sei in sala operatoria e sta andando tutto bene.'
Borbottii.

Cioè volete dirmi che l'anestesista sta parlando col paziente e lui risponde?!?!
Impossibile.
Eppure..

Mi allontano dalla mia postazione (ragazzi, questa volta è stato davvero difficile trovare il mio angolino senza disturbare nessuno!) e con estrema cautela mi avvicino al letto operatorio.
Potete immaginare la mia sorpresa nel constatare che il nostro buon Giacomino aveva gli occhi aperti, rispondeva a semplici domande pre-impostate dalle psicologhe, mentre dietro di lui i chirurghi si davano da fare per riconoscere i confini della lesione espansiva da asportare senza intaccare le porzioni adibite al linguaggio, attraverso stimolazioni ad hoc.

'Forza, cosa c'è su questa carta?'
'Cane'
'Bene, qui?'
'Cusciafssjkcn'

Panico! Doveva essere un cuscino, non un neologismo!
Due secondi di pausa!
Tutti un bel respiro!

Significa che durante l'esecuzione dell'intervento si è andati in strettissima prossimità (si, parliamo di millimetri) di una porzione della circonvoluzione frontale inferiore deputata alla produzione del linguaggio. Perciò, con calma risolutiva, il chirurgo, mentre si continua a stimolare il paziente, circumnaviga tale porzione e prosegue imperterrito nell'intervento, che continuerà fino al termine senza alcuna battuta d'arresto.

Amazement awaits us at every corner
(J. Broughton)
Meno male avevo la mascherina: perché penso di essere rimasto letteralmente a bocca aperta.
Ancora una volta.
Non riuscivo a capacitarmi di come potesse essere accaduto!
Ok, il cervello non ha recettori del dolore come invece ne è estremamente provvista la cute, i muscoli e il cranio; per cui escludiamo la dimensione nocicettiva.
Però stavo veramente assistendo a qualcosa di estremamente unico nel suo genere.
Fermatevi due secondi e ragionate.



Avere modo di accedere alle aree più profonde del cervello, il prezioso caveau del nostro essere, con un notevole salvagente che si traduce nello svegliare il paziente che, consapevole di quello che sta accadendo, sarà la vostra guida, il vostro tom-tom!?

Se ancora ci penso ora, a distanza di mesi, in realtà sorrido (il brividino lungo la schiena rimane eh).
Sorrido perché avere la fortuna di individuare un qualcosa che permetta di stimolarti, di fissare ulteriormente il percorso che vorresti intraprendere, di stabilizzarti sui mille pensieri che ora come non mai attraversano con violenza e senza riguardo la tua quotidianità, di rinnovare in te quello stupore così genuino, non è scontato.
E quindi si, la strada è lunghissima. Ma chissà se prima o poi avrò la fortuna di urlare anche io quel 'sveglialo' e allora mi ricorderò del buon Giacomino, e di come anche in una sala operatoria si può rinnovare una certa magia.
Diamo tempo al tempo.

Intanto sorrido, che male non fa.
No tranquilli, non è una crisi gelastica.


P.S: se non fossi stato sufficientemente chiaro, basta andare su YouTube e cercare awake surgery.
E nulla, lasciatevi meravigliare.


lunedì 28 ottobre 2019

Il futuro inizia oggi, non domani.

Oggi piove.
E' lunedì ma non sono in ospedale, che succede?

Mi affaccio da una finestra di una biblioteca a me non familiare, su un paesaggio che non rispecchia i soliti contorni della piatta Brianza a cui sono abituato, o dei brulli monti fuori casa mia, nella mia amata Bergamasca.

In questa fase di stallo, ho tempo per riflettere, per pensare.
Kings of Convenience in sottofondo, chiaramente.

Mi sono laureato.
E' un fulmine a ciel sereno: sono passati solo 12 giorni da quel pomeriggio soleggiato, quasi primaverile.
E' uno di quei pensieri che non puoi frenare, erompe bruscamente e ti impone di fermarti. Ma è forse ora il momento per ragionare davvero su ciò che è successo, dopo i vertiginosi giorni di festeggiamento e gli altrettanto importanti giorni di recupero di ore di sonno.
Si, ora è il momento giusto.

Se vado a guardare la cronologia di questo raccoglitore di pensieri, confusionario e poco puntuale, trovo la data del 23 luglio 2015, e non riesco a non pensare a quella come l'estate dello sfacelo fisico e mentale, per tentare di superare quello che sicuramente è stato l'esame più ostico di tutti, fisiologia.
Pensare che in quel contesto, che in quelle giornate infinite sia nata la necessità di dare sfogo a me stesso, di dare libertà a un rigurgito di parole non sempre chiaro che ha spesso assunto le forme di racconti neuroaddicted, mi fa sorridere. Mi rasserena.
Perché nonostante il caos mentale che poteva derivarmi da uno studio allora non particolarmente efficace, ho avuto il coraggio di prendere tempo per me stesso, di iniziare qualcosa di nuovo che, se anche non garantiva l'uscita di nuovi articoli settimanalmente, mi permetteva di essere sereno, di essere davvero felice nel poter buttare giù due righe di pensieri nelle note del telefono anche se non avevano l'ardire di diventare un pezzo su questo fantomatico blog.
Scorro le date degli articoli e mentre passano gli anni, in parallelo corre il film della mia carriera universitaria: l'affaccendarsi di argomenti sempre più complessi e sempre più affascinanti, tirocini sparsi in ogni dove che, seppur i vari limiti organizzativi, mi hanno donato tanto.
Aspetta un attimo, è vero!
Si, ora andrò un pò controcorrente ma ehi, quanto sono unici i tirocini cui ho avuto la fortuna di partecipare?! Toccare con mano, anche per poco tempo e non sempre con la giusta profondità, molti ambiti della moderna medicina mi ha davvero insegnato molto.
Non parlo solo dell'universo di informazioni dietro a un dato di laboratorio anormale o nascosto da un segno clinico peculiare.

Parlo di umanità.
Quella vera.
Quella che non insegnano, della quale tu puoi esserne testimone consapevole.

Negli anni, ho avuto la fortuna di conoscere professionisti che valorizzavano questa dimensione, non con la boriosa dimostrazione del loro ruolo, ma perché umani.
Splendidi esseri umani.

E penso che questa dichiarazione rispecchi sopratutto chi, negli ultimi due anni, mi è stato davvero vicino. E ancora cadiamo lì, nel mondo che tanto mi piacerebbe diventasse parte integrante della mia quotidianità da qui a un anno quando il test di specializzazione orienterà il mio futuro.
Si, sto parlando ancora di neurochirurgia, in particolare quella del San Gerardo, che è stata un pò come una seconda casa, sicura e, nonostante alcune incongruenze, piena di umanità.
Quella autentica.
Ho aggiunto inavvertitamente un'altra parola-bomba, futuro! Ed ecco quindi che come pensiero flash posso affermare con certezza che rimango saldo su quello che voglio: non riesco a trovare una ragione precisa per la quale vorrei fare il chirurgo, ne trovo solo un migliaio per cui non devo smettere di credere che sia possibile diventarlo. Arriverà sicuramente il momento in cui diventerà più che una semplice passione, un mero interesse, più che un semplice gioco..
E, arrivato quel momento, credo che tu possa scegliere di fare quel passo in avanti, oppure voltarti e andare via. Potrei, ora come ora, pensare a un'altra strada, forse una che mi garantirebbe di non sacrificare così tanto come ho visto fare ai miei cari specializzandi. Si, potrei mollare, cambiare rotta.
Ma c'è un problema, e anche piuttosto imponente..
Mi piace troppo.

Vero, forse divago un pò troppo, toccando tanti concetti. Scrivo qualsiasi pensiero mi passi per la testa: ma, ehi, a chi non piace un flusso di coscienza caotico e incomprensibile?

Torniamo all'umanità. Quella splendida dimensione dell'essere che forse più di ogni capitolo studiato, mi sta davvero permettendo di raggiungere chi ha bisogno d'aiuto.
Non pecchiamo d'orgoglio nell'usare il tempo passato nella frase precedente: non ho minimamente scalfito ciò che significa davvero essere medici. Ho appena iniziato!
Certo, che qualcuno ti metta la corona d'alloro in testa non può essere secondario, ma nemmeno considerarsi come l'apice del proprio percorso: c'è chi dice che adesso viene il difficile, e a questo qualcuno rispondo che sono pronto a affrontare il difficile ma anche il bello che sottende questa scelta di vita, che sono certo, mi renderà nel tempo un vero essere umano.

Pioveva.
Ora, un timido raggio di sole illumina una grigia città.

Ah si, mi sono laureato.
Ora si comincia, sul serio.














domenica 20 gennaio 2019

Sii ciò che desideri essere. Persegui gli scopi che desideri raggiungere. (S. Bambarén)

Cosa garantisce il raggiungimento di un equilibrio?
Cosa permette di ritenersi soddisfatti di ciò che si sta perseguendo?
Vale la pena stravolgere gli schemi mentali, le abitudini quelle 'dure a morire' per uno scopo più grande?

Vaneggiamenti di una fredda domenica invernale, ma sono queste le domande che una settimana fa a quest'ora, mi attanagliavano la mente, contorcendosi in un intricato labirinto senza apparente soluzione.

Lunedì scorso ho cominciato ufficialmente il mio internato di laurea nel reparto di Neurochirurgia dell'Ospedale San Gerardo di Monza, affiliato alla mia università. 
Un tirocinio come altri, qualcuno potrebbe dire.
Una proforma burocratica noiosa e necessaria, direbbe qualcun altro.
Un' avvincente partenza per un futuro che, seppur dalle tinte non chiare, so sarà stupendo, dico io.

Non vi nascondo che mettere per iscritto 'internato di laurea' mi agita, mi scatena sentimenti contrastanti come mai non ne ho provati prima: una gioia irrefrenabile sapere che manca meno di un anno a un percorso che pareva essere infinito, una paura paralizzante su quello che questo comporterà in termini di responsabilità e ipotesi di futuro ancora vaghe.

Ma direi di gustarci il momento.
 
Non prendiamoci troppo in giro però: lo sapete, sono un tipo piuttosto paranoico. 
Inizialmente ero davvero molto titubante a pensare di dover già frequentare sapendo di dover sostenere ancora i tre esami finali del corso che sono, per definizione, riassuntivi di tutto il ciclo di studi. 
Siamo in piena sessione invernale: quel periodo tanto odioso quanto necessario per tentare di superare gli esami, caratterizzato dal minor numero di distrazioni e contatti con il mondo, al di là della mia scrivania. 
E mi viene proposto di alterare questa ormai ben consolidata routine per andare in ospedale per un non ben ancora definito compito? No dai..che cavolo! So di essere molto limitato, se si esce dagli schemi organizzativi faccio molta fatica, si, provo a adattarmi però questo è troppo! Non ce la farò mai..

C'è però la questione 'forza propulsiva'! 
Mi spiego meglio.

Ritrovarsi a 24 anni a passare ancora giornate intere come uno studente liceale a studiare per cercare di superare l'ostacolo 'esame' è una situazione davvero oppressiva, sembra spesso fine a sé stessa, focalizzata all'elementare raggiungimento di voti stellari. 
Si perde, credo, il contesto in cui si stanno concretizzando questi sforzi. Viene quindi a mancare un pò di grinta nell'affrontare tutto questo..

Ma ecco che, passare del tempo tra il reparto e la sala operatoria di quello, che spero ardentemente, potrà essere il mio futuro, mi ha già fornito, a distanza di pochi giorni,  una forza indomita che non avrei mai immaginato!

Non che abbia sostenuto alcuno di questi esami, non ho cioè la dimostrazione scientifica che questo nuovo approccio organizzativo funzioni, ma sono sereno, felice di aver ritrovato una compagna che avevo perso di vista da un pò, una forza motrice il cui stimolo avevo in parte perso da un tempo non chiaro: la motivazione.

Una motivazione che può essere decifrata con l'incanto della clinica neurologica.

Essere in grado di collegare patologia - tipo di intervento neurochirurgico - neuroanatomia - clinica pre e post operatoria - neuroimaging  è meraviglioso. 
Ok, forse per l'imaging sono a un livello molto molto basilare ma grazie alla pazienza dei miei fratelli/sorelle maggiori (questo sono per me gli specializzandi che sto conoscendo sempre meglio) piano piano capirò bene la sede di cisterne, vasi e quant'altro.
Lo so, qualcuno potrebbe considerarli come i patetici discorsi di uno studentello che rimane affascinato da qualcosa di impalpabile o di non così entusiasmante ma alla fine, la migliore filosofia ha sempre sostenuto che il punto più elevato, più fresco e più compiuto della ragione è il meravigliarsi (F. Hadjadj). 

Se all'esame obiettivo neurologico di un paziente che sale in reparto dalla terapia intensiva dopo un intervento, apprezzi la presenza di un deficit del nervo facciale con spianamento della rima labiale, segno di Negro, lagoftalmo con segno di Bell (il segno di Bell ragazzi!) capisci che il VII è stato coinvolto in maniera importante nell'intervento; pensi allora al decorso di tale nervo e vedendo che l'incisione è sita posteriormente, pensi a un intervento di asportazione di un neurinoma dell'acustico che, spesso, dà come complicanza maggiore una lesione più o meno significativa del facciale in quanto adiacente al vestibolococleare, sopratutto in prossimità dell'angolo ponto cerebellare.
Per me sono piccole conquiste riuscire a risolvere tali rompicapi, e è estremamente affascinante riconoscere l'evidenza semeiologica di un danno anatomico ben preciso!

Senza dimenticare la sala operatoria.
La sala operatoria!!

Il vero perché alla domanda esistenziale del 'come mai sei più orientato a una branca chirurgica'.
Se vogliamo tradurre meraviglia con un luogo ben preciso non potrebbe essere altro posto, un luogo quasi magico in cui il frastuono del mondo esterno e di tutte le preoccupazioni che porta con sé, spariscono, per lasciare spazio alla più profonda concentrazione che si concretizza in fluidi e calcolati gesti atti a salvare una vita.
Ritornarci, dopo un bel pò di giorni, è stato quasi catartico: lo so, forse esagero e i più mi considereranno un esaltato, però è davvero quello che percepisco. In sala operatoria il tempo perde ogni significato: mentre si incide, si sutura e si salvano vite, l'orologio non ha importanza. 

10 minuti, 10 ore.

E anche in questo primo assaggio, ho avuto modo di assistere a interventi che sanno del fantascientifico. 
Dall'evacuazione di un ematoma cronico che ha rivelato purtroppo essere l'anticamera di una lesione neoplastica profonda all'emergenza della settimana che, a dispetto del 'solito' ematoma subdurale acuto, era dovuta alla presenza di un tumore profondo di 7cm x 6cm a livello parieto-temporale destro che creava un pericoloso aumento di pressione endocranica che stava evidenziandosi con un notevole shift delle strutture mediane e un sopore sempre più franco alla valutazione clinica.

E così è. 
La meraviglia tradotta a professione, a missione.
Ora come ora non potrei desiderare di meglio, anche se la vivo da spettatore (ma lo spettatore quello innamorato pazzo dello show, per capirci quello che rimane seduto in sala a vedere tutti i titoli di coda fino all'ultimo) mi sento parte di un miracolo che si rinnova ogni giorno. 
E questo mi dà lo stimolo giusto per affrontare, con la giusta carica, gli ultimi ostacoli.

Certo, in neurochirurgia, sopratutto con i grandi tumori, la sfida è spesso impari: si perde tanto quanto si vince. La chiave però, mi sembra di capire e di apprezzare, è non fallire.
E l'unico modo per fallire è non combattere. 
Perciò, Sergione, combatti finchè non puoi combattere più, anche perché è questo il vero equilibrio che andavi cercando, è qua che si gioca la partita.

Si, ci sono migliaia di motivi per cui dovrei smettere di credere, di impuntarmi su questa scelta che potrebbe apparire come parzialmente autodistruttiva: qualcuno rende spesso le cose difficili apposta, il cammino è disseminato di scogli
che paiono insormontabili, arriva un momento in cui diventa più che un semplice 'show di abilità e tecnica'.
E puoi fare quel passo avanti, oppure voltarti, andare via e ritornare mesto alla tua scrivania.

Potrei mollare, ma c'è un problema... è più forte di me, mi piace troppo.