domenica 7 marzo 2021

Prospettiva

Avete mai avuto il coraggio di cambiare prospettiva?

Vi siete mai trovati catapultati ad assistere lo scorrere del tempo da un punto di osservazione diverso a quello a cui eravate abituati? 

Così rapidamente, così vorticosamente che non avete avuto il modo di riorientarvi nel nuovo sistema di riferimento, e vi sentite persi, confusi, disorientati che manco l’arguto sguardo di Legolas Verdefoglia riuscirebbe a riportarvi sulla strada cui eravate abituati.

 

Beh, se vi è capitato sono certo potrete condividere con me che non è sempre immediato adattarsi.

Tremendamente faticoso, estremamente poco agevole.

 

Ma proprio per questo, straordinariamente unico.

 

Mercoledì scorso è stato il mio primo giorno ufficiale da specializzando in sala operatoria.

Con un’ottima progressione per gradi, ho trascorso il primo mese in affiancamento per l’attività di reparto con l’acquisizione graduale di autonomia chiaramente ancora da rinsaldare. E ora, comincia anche il percorso di affiancamento in sala.

 

Sto scrivendo queste righe a distanza di qualche giorno, nella comodità del divano di casa.

Credetemi però se vi dico che l’emozione di aver vissuto un giorno come quello, è stata così intensa, da non poter in alcun modo scemare. Anzi, in un certo modo si è quasi rinforzata: come se quell’onda impetuosa si fosse cristallizzata in una scultura maestosa, come quelle di un’epoca che fu, come se la volontà di perdersi negli occhi scrutatori di quella ferma figura fosse in realtà un richiamo magnetico per tornare ad esperire una delle sensazioni più pure.

 

Forse qualcuno potrebbe chiamarla esagerazione.

Io la chiamo naturale completezza.

 

Non prendiamoci in giro: ero così agitato che a momenti non sapevo più come si indossavano i guanti sterili, senza parlare di quanto imbarazzante è stato chiedere che mi togliessero gli occhiali perché si appannavano ogni volta che respiravo nella mascherina...raga che inizio trionfale!

 

Dopo un attimo di assestamento, mi sono stabilizzato.

O meglio, ho ricoperto una posizione nuova, un posto che avevo visto solo da lontano: a lato del capo del paziente, come operatore, come aiuto allo specializzando grande nelle fasi di apertura e chiusura e come spettatore privilegiato durante le fasi centrali dell’intervento.

 

Sono sterile, di fianco a una persona la cui vita verrà inevitabilmente stravolta da un intervento neurochirurgico. 

 

Paziente in posizione prona, con capo fissato in testiera a tre punti di Mayfield. Accurata disinfezione. Somministrazione di anestetico locale lungo i margini di quella che sarà l’incisione. Acquisizione dei reperi intra-operatori in neuronavigazione.

 

Respira. Trattieni il fiato. Prendi una garza e l’aspiratore.

Sono le 10:24.

Si incide. Segui il percorso segnato dal bisturi nelle mani dello spec grande.

E così, in un rapido concerto di movimenti, dall’incisione arciforme a cerniera inferiore, si dissezionano gli strati epicranici con successivo ribaltamento del lembo miocutaneo, si eleva il periostio, ed eccola lì: l’immacolata e inviolabile superficie cranica.

 

Inviolabile, fino a prova contraria.

 

Già mi sembra di vivere un sogno ad occhi aperti, anche per il solo fatto di concentrarmi e aiutare lo specializzando che come primo operatore sta raggiungendo il piano della lesione da asportare.

E poter ripercorrere così, ogni singolo momento...mi credete se vi dico che mi vengono i brividi?

È, per assurdo, l’emozione più ardua da tradurre a parole!

Nonostante si tratti di un’attività tra le più pratiche e concrete che esistano: ma non è forse questa la magia più pura? Quella di non trovare la definizione da vocabolario per accreditare significato e dare essenza vera a quella situazione, un po' come quei legami che nascono per caso e si trasformano in un’incredibile epifania di sensazioni, indecifrabili.

 

Ma torniamo a quella stanza piastrellata.

Asettica.

Inodore.

Meravigliosa.

 

Craniotomo alla mano, ed in men che non si dica, si effettua una precisissima craniotomia quadrangolare centrata sulla lesione. Si ribalta l’opercolo osseo ed ecco la delicata e robusta dura madre ci accoglie, segnalando l’ultimo accesso al sancta sanctorum che come avidi cercatori di tesori, violeremo da lì a poco.

Dobbiamo incidere la dura, chiamiamo lo strutturato.

 

Chiudo gli occhi, solo due secondi.

Mi lascio invadere dai ritmici beep dei marchingegni degli anestesisti, lì dietro di me: nonostante le volte in sala da studente, non mi ero mai soffermato sulla delicata armonia di questi suoni artificiali.

Ma forse perché non vivevo la sala, in quella prospettiva.

 

Riapro gli occhi, lo strutturato si è lavato e ha preso il posto d’onore, direttamente davanti al capo della paziente e noi due specializzandi, al suo fianco, uno a destra uno a sinistra, quasi come immortalati in un dipinto di un’era passata.

 

Si incide la dura madre con un bisturi sottile, con una delicatezza quasi da far paura: il parenchima cerebrale è li sotto, e aspetta solo un nostro invito per emergere.

Eccolo, a braccetto con la frequenza cardiaca, ritma e si espone, anche un po' troppo: è per colpa di quella dannata lesione nelle profondità oscure, che lo spinge in maniera inconsueta, patologica.

Si individua un solco satellite, e in quattro e quattr’otto mi ritrovo a guardare il campo operatorio attraverso due oculari!

No, non sono stato così pollo da richiedere i miei occhiali così da cadere ancora nell’inganno della foschia della lente.

No, è stato posizionato il microscopio operatorio: un supporto tecnologico che ingrandisce ed illumina la regione permettendo di lavorare con estrema precisione nello spazio di pochi millimetri.

Si, avete letto bene: pochi millimetri! Avete capito di che minima distanza stiamo parlando?

Si ovviamente, direte voi.

Beh, lo pensavo anche io, solito illuso che non sono altro.

 

Vi assicuro che non si può avere totale coscienza del significato di pochi millimetri finchè non si ha modo di avere lì, a un palmo di naso, le mani dello strutturato che trovano un tragitto sicuro, in pertugi strettissimi per poter asportare la lesione e preservare l’encefalo sano.

 

E la ricerca di questo percorso avviene tramite corticectomia della porzione in esame.

La lesione è evidente, quel grigiore malefico che deturpa il roseo parenchima.

E allora l’azione si fa più frenetica: disseca, coagula, aspira, rimuovi e riparti. 

E io inebetito, ad ammirare tutto quanto stava accadendo, non riuscendo a realizzare la nuova prospettiva con la quale schermare la situazione che stavo vivendo.

I minuti passano con una velocità disarmante, l’asportazione prosegue imperterrita finchè a un certo punto le luci vengono spente. 

Si accende una particolare luce tramite il microscopio.

 

Sipario.

 

Brillano con una colorazione fluorescente i residui della lesione che erano sfuggiti al primo approccio perché nascosti, o difficilmente visibili: questo è stato possibile grazie a un tracciante particolare, la fluorescina sodica iniettata endovena e in grado di identificare proprio le porzioni patologiche.

Ora immaginatevi che genere di eccitazione si può provare davanti a tutto questo: alla possibilità di incrementare l’efficacia di un intervento così invasivo e a tratti pericolosissimo, alla concreta ipotesi di minimizzare i danni al parenchima sano così da permettere un risveglio senza nuovi deficit neurologici…riuscite a trovare le parole? 

Ottimo, se avete pazienza allora ditemele voi: io ho ancora quella xerostomia che è segno di quelle emozioni forti che ti impastano così tanto il cavo orale da non poter spiccicare parola alcuna.

 

Non abbiamo più porzioni brillanti. 

Lo strutturato si slava, tocca a noi due spec controllare l’emostasi e chiudere. Mi distolgo da quello stupor da ‘OmioDiochefigataspazialenoncipossocredere’ e mi attivo per essere un supporto efficace: aspira, coagula, aspira, coagula.

Una ripetitività di movimenti che fa rima con i più aggraziati gesti di una ballerina di danza classica.

Si sutura la dura madre, rinforzandola inferiormente con graft di pericranio autologo. Appensione durale ai bordi della craniotomia. Manca la porzione finale, l’opercolo osseo: si effettua un’osteosintesi con placche e viti ed emostasi dei piani epicranici. Suture per strati e chiusura.

 

Fine intervento.

Posso riprendere a respirare.

 


L’apnea più lunga della storia: 145 minuti di pura emozione.

Ma forse è la nuova prospettiva ad aver dato colore a un anonimo mercoledì invernale.

In una sala operatoria di un ospedale qualunque.

La nuova angolazione che ha svelato una visione che da tanto tempo cercavo e che era solo dentro di me, ora è reale, palpabile, viva e con la forza dirompente della più violenta delle cascate, mi travolge in un preziosissimo turbinio di emozioni.

Vere. 

Incredibili.

 

E allora avevano ragione i fratelli Gallagher a cantare così

.. Slip inside the eye of your mind

Don't you know you might find

A better place to play

You said that you'd never been..