domenica 29 agosto 2021

Cascata

Se si avesse la fortuna di interrompere lo scorrere del tempo.

Se fossimo dotati del coraggio di bloccare in un’istantanea quel frangente di momento.

Se riuscissimo a cristallizzare quel dinamico Pánta rheî in un solido ricordo cui attingere nelle ore di sconforto.

 

Allora forse il disegno riuscirebbe ad acquisire una sua personale e unica fisionomia.

 

Ma una vita di se è difficile da tradurre in significato.

Il susseguirsi di se in realtà riesce, tante volte, a diventare tangibile solo in una reazione a catena che con violenza e forza primigenia ti scaraventa al suolo.

Senza mezze misure.

Senza tanti fronzoli.

Con ardore ti travolge, ti inghiotte, ma allo stesso tempo è capace di filtrare la luce fioca del giorno in un tripudio esaltante di colori vividi.

 

È come una cascata.

Un terribile e meraviglioso gioco di spruzzi e di schiuma e di fragore, che ti trascina in un flusso trasparente che vibra tra i muri piastrellati di una sala operatoria, tra gli occhi incredibilmente svegli del personale di sala in orari improponibili, tra mani guantate e veloci che cercano di salvare una vita, tra un delicato ma resistente punto di sutura sulla dura madre e un vigoroso craniotomo chiamato ad aprire una breccia per quella che è l’ultima chance…

 

Così sono state le mie ultime tre settimane di rientro dalle ferie estive.

Come una cascata.

 

Una dinamicità quasi violenta che mi ha risvegliato da un torpore di salsedine, richiamandomi a numerose prime volte.

La mia prima DVE.

La mia prima craniotomia.

I miei primi sottodurali acuti.

 

In queste settimane ho assaporato con occhi innamorati ogni singola prima volta: era come se il mondo avesse improvvisamente smesso di girare, come se la gente intorno a me fosse scomparsa, tutto dimenticato. 

Come se quella chiamata alle 21.35 di 14 secondi della vigilia di ferragosto, scandita da “forza vieni che il pz dell’aneurisma di oggi è in idrocefalo e devi mettere la dve” e dal mio tentennante “si, arrivo” mi avesse travolto a tal punto da non rendermi conto dell’iperattivazione del mio sistema simpatico. 

Una cascata tale di sensazioni da compromettere, ad oggi, il ricordo vivido degli istanti prima di rivolgermi alla strumentista.

 

Bisturi.

 

E seguire quella linea tracciata a pennarello in fretta e furia secondo i dettami stabiliti dalla craniometria, e scolla il periostio e prendi il craniotomo e schiaccia il pedale e rimani perpendicolare al tavolato osseo e spingi e spingi.

E arrivare alla dura madre, con delicatezza aprirsi la strada e prendere il catetere e spingerlo per quei 6-7 cm nel parenchima cerebrale. Quasi alla cieca, quasi alla disperazione, sperando, una volta tolta la guida metallica, di veder zampillare il liquor… ed eccolo lì gorgogliare allegro.

 

Come una cascata.


 

E la scenografia rapidamente cambia integralmente e rimane la stessa a distanza di pochi giorni.

Tolta la componente adrenalinica dell’urgenza, ritrovarmi al posto d’onore, quello del primo operatore a procedere per la primissima volta a operare da primo dall’incisione cutanea fino all’apertura durale per un intervento di asportazione di lesione cerebrale.

E se l’adrenalina non scorreva a fiumi tra i componenti della sala, era solo perché era tutta concentrata nelle mie mani che quasi tremanti si apprestavano a fare la mia prima incisione cutanea curvilinea frontotemporale.

Scolla i tessuti sottocutanei, disseca, coagula, incidi, esponi, ribalta, lava. 

Ti ritrovi la porzione di cranio lì davanti, lucida, riflettente quelle luci artificiali che provano a far filtrare un po' di calore.

Controlla sul neuronavigatore, non vuoi ledere il seno sagittale superiore la prima volta che fai un foro craniotomico su un intervento del genere.

Perpendicolare. Premi. Tieniti forte. Tre fori. 

 

Respira. O forse no, rimani in apnea. Non è finita.

 

Cambia strumento, è nuovo. Più fine, molto più delicato. Devi unire i fori così da asportare il lembo osseo e accedere al parenchima sottostante. Con calma ma con forza. 

Agisci. Sei sul parenchima.

Un turbinio di eventi che hanno azzerato il contorno, capaci di creare un’eco devastante e un urlo micidiale nel religioso silenzio di una sala operatoria di neurochirurgia.

 

Come una cascata.

 

E torniamo all’ora del crepuscolo.

Quando il mondo cerca pian piano di calare il sipario sulla giornata che è stata, ecco che un trauma cranico è capace di interrompere il regolare fluire delle ore e anzi catapultarti.

Come se il fragore generato dell’anestesista che urla ordini per tenere la PA a valori umani, dalla concitazione del neuroradiologo a interpretare quelle immagini della scala dei bianchi e grigi a monitor e dalla calma quasi serafica dello strutturato a scandire gli attimi come il migliore dei direttori d’orchestra, potesse in realtà spingerti lì, sul bordo di un abisso.

Con la tentazione quasi di cadere se non fosse per quella voce “forza, tocca a noi”.

E non una ma ben due sere, a distanza di pochi soli l’una dall’altra, sono state dettagliate da questo coacervo frenetico di movimenti, da quella babele di voci silenziate dal bip rallentato in sala operatoria.

E quella sera in tre ad aiutarci per evitare che quel parenchima cerebrale non erniasse dai bordi della craniotomia, fino a quell’altra notte che con pacata e delicata tecnica aiutavo a creare uno squarcio nella vita di qualcuno per permettergli di riacquisire progressivamente un’isocoria che per noi fa rima con “ok, puoi ricordarti di respirare. Ora”.

E sono quegli sguardi di timido sollievo con chi ti ha assistito, mentre richiudi delicatamente, che ti fa sentire parte di un qualcosa che non si spiega a parole, perché sei riuscito a regalare una chance di vita. Un sollievo che si infrange con violenza al suolo come la più impetuosa delle cascate, quando assisti al colloquio con chi amava quel qualcuno, quando le voci sono rotte dall’emozione di partecipazione a quello che forse ci rende più umani. Il dolore.

 

Come una cascata.

 

Ed è col trascorrere dei giorni, quando questi si quietano in una placida e regolare quotidianità in reparto, che quelle ore che sembravano così interminabili quanto fugaci, sembrano tanto lontane e tanto sfocate.

Quasi come se fossero un sogno, un tratto dalle tinte oniriche in cui una fragorosa cascata si è portata via tutte le immagini e le parole che ho sognato, lasciandomi solo la sensazione di essere stato, per qualche attimo, in quel flusso.

 


Ma ecco che subito vieni smentito.

E quel boato intenso in realtà ritorna vivido alla mente grazie alle parole di chi ti ha supportato in ogni istante, agli sguardi di chi vuole sapere, alle immagini e ai dati clinici che impietosi non ammettono appelli.

 

Ma come ogni prima volta non potrà mai più essere rivissuta dato l’incessante mutamento del tempo, dato il perpetuo divenire che armonicamente regola il tutto, così quel susseguirsi di sensazioni vere, di gesti spontanei, di mani che aprono santuari inviolabili, di dita che stringono vincoli di seta, mi ritorneranno alla memoria con violenza ogni qual volta si ripresenterà quell’evento, scaraventandomi ancora una volta, in quello che pian piano, sta diventando, il mio posto nel mondo.

 

Come una cascata.

domenica 4 luglio 2021

Apnea


Pare che nell’aprile 2021 si sia registrato il nuovo record mondiale di apnea: 24 minuti e 33 secondi, impresa riuscita ad un esperto sommozzatore croato.

Se fosse venuto in sala operatoria l’altro giorno, sono certo che avrebbe infranto il suo stesso primato.

 

Esagerato dite voi. 

Incredibilmente vero, vi assicuro io.

 

E questa volta non è stato trattenere il respiro, assistendo in maniera quasi inerte al procedere dell’intervento chirurgico.

Questa volta ha implicato un’apnea soggettiva per un ruolo di coprotagonista in una procedura delicata che aveva come scopo quello di ripristinare ciò che noi spesso diamo per scontato: alzarsi da un piano e camminare.

Un’operazione che si poneva fin da subito come una vera e propria sfida e che, per la solita congiunzione astrale mossa dal caso, è capitata nel giorno in cui io ero di turno come specializzando di sala operatoria. Questo implica, per i non addetti ai lavori, che ad operare eravamo io e lo strutturato di guardia. 

Ripeto: lo strutturato di guardia ed io.

Soli.

Io e lui, lui ed io.

 

Ok, credo di aver reso l’idea. Perdonatemi ma quando lo scrivo, si solidifica nella mia mente, ricordandomi che è stato tutto vero.

Perché sapete, tante volte la verità gioca a nascondino e non si concretizza senza che siamo noi a ‘fare tana’ e ricordarci di trasformarla in realtà.

 

“Ma non era mica la prima volta che scendevi in sala! Hai già operato con uno strutturato no? Quante storie per un intervento! Monotonia portami via…”

 

Se avete pensato a una di queste frasi, ve lo concedo.

Non mi sono spiegato sufficientemente bene.

L’intervento chirurgico in questione implicava, nel suo tempo centrale (ossia dopo la fase di apertura quando si è esposto il problema da risolvere), l’utilizzo del microscopio operatorio.

L’arnese che più rende questa, la chirurgia più fine e delicata in assoluto.

Il marchingegno in grado di rendere visibile l’infinitamente piccolo, di trasformare un dettaglio in un delicato problema da risolvere, da coagulare, da asportare.

 

Immaginatevi, per chi di voi non l’avesse mai visto, un microscopio montato su un braccio movibile e con almeno due paia di oculari in cui gli operatori si affacciano per poter guardare laggiù, attraverso la finestra dell’ingrandimento, verso il focus della procedura.

E vabbè, come se negli anni di università non avessi mai guardato in un paio di oculari di un microscopio: cosa vuoi che sia?

 

Vero, ma…c’è sempre un ma che rende questa disciplina spaventosamente affascinante.

Dovete pensare, non solo di passare tre quarti dell’intervento attaccati a queste due protuberanze ottiche senza permettervi di distogliere lo sguardo e rischiare di perdere il focus, ma soprattutto di utilizzare strumenti fini e delicati da introdurre in uno spazio di manovra di pochi centimetri che ingranditi, sembrano sì delle vallate, ma che in realtà sono minuscoli pertugi dove lavorare.

Ah già, e in tutto questo ricordatevi che se si sceglie di utilizzare il microscopio è perché ci troviamo nella necessità di intervenire direttamente o sul parenchima cerebrale o sul midollo spinale e le radici nervose. 

Ora, ritornate qualche riga più su, rileggete il perché dell’intervento e capirete dove eravamo e perché ero così leggermente agitato e sudato.

 

‘’Aspira di qui, certo c’è il midollo lì, non vuoi tranciarlo e creare un bel danno, vero Sergio?’’

 

Ok bene.

Queste sono state le parole che mi hanno dato il benvenuto.

 

Un benvenuto che sapeva di fuoco, che sapeva di iniziazione verso una pratica misteriosa.

Come se ‘muovi di lì, traziona di là, aspira ma non troppo’ fossero le parole in codice per introdurmi a dei segreti occulti ai più.

 

Tra delicati goffi tentativi di procedere nell’intervento, la costante era una.

Apnea. 

 

Dal greco: privazione, mancanza di respiro.

E no, non era involontaria.

Era necessaria.

 

Come se un respiro di troppo, o troppo lungo potesse in realtà compromettere l’equilibrio del focus al microscopio, o alterare la difficile posizione che avevo assunto con gli strumenti all’interno del sacco durale per evitare di danneggiare le strutture nervose che correvano di lì a pochi millimetri.

Ecco così: un’apnea misurabile in decimi di centrimetro.

Non come quelle che troverete sui libri dei guinnes dei primati, nulla a che vedere con le nuotate verso le profondità degli abissi con un sol respiro.

Qui lo sforzo meccanico si concretizzava in uno spazio incredibilmente minuto. Dove il benchè minimo movimento brusco o anche in parte spostato, avrebbe potuto creare danni irrecuperabili.

 

Forse dovrei andare a lezione da qualche sommozzatore, perché credo che questo stato di privazione d’aria andrà a braccetto con questo tipo di interventi, sarà il comune denominatore per tutte quelle volte che mi avvicinerò timoroso e con reverenza a quello strumento, creatore di portali verso un mondo infinitesimo.

 

C’è chi dice che, a differenza del sub che si immerge per guardarsi intorno, l’apneista lo fa per guardarsi dentro.

Credo che verità più assoluta non esista: anche se non circondato da coralli o fauna oceanica, la mia apnea non è risultata come una fase statica quanto piuttosto come un luogo, un corridoio vero e proprio, un mezzo di passaggio per accedere a un altrove.

 

Chi di noi non l’ha sperimentato.

Il contesto in cui vivere la propria apnea può assumere qualsiasi connotato. 

Per me è stato quell’anonimo giorno, al microscopio operatorio: è stato quell’interminabile procedere di minuti che si circondava dall’incedere dei bip ai monitor, dai colori di un midollo compresso che pian piano riacquistava la sua naturalezza, dal risveglio della paziente con il carico emotivo straripante, terrorizzato da come sarebbe stata la sua clinica nel post-operatorio, dal movimento in autonomia di quegli arti dapprima compromessi e ora sulla via della ripresa funzionale.

 

Un intervento chirurgico, anzi no, neurochirurgico, può regalarti tutto questo.

Ha il potere di stringerti in una morsa nella quale boccheggi, fatichi a riprendere un ritmo eupnoico; ma ha altresì modo la facoltà di indurti in quello stato di trance che, isolandoti da tutto il contorno, ti stimola a ripensarti, a interrogarti.

Quasi come se quell’apnea al sapore asettico di sala operatoria ti ricordasse che è necessario conquistarsi una vita fatta a propria misura e profondità.

 

Non puoi dimenticarti di respirare, ma puoi dimenticarti di respirare rumorosamente così da rimanere ancora una volta affascinato dal logico incedere di un dissettore e un aspiratore, abili strumenti per ripristinare l’equilibrio.

Rimanere ammaliati in un balletto senza fine tra un’incisione e un punto di seta 4.0 

Costantemente.

 

Il sacco durale è stato richiuso con punti staccati. Una PEEP ha escluso perdite liquorali dalla sutura. Posso chiudere per strati.

Arrivo alla cute, ultimo punto, ultimo sforzo prima di riemergere.

Respiro.

 

Almeno fino alla prossima puntata in apnea.

mercoledì 2 giugno 2021

Precisione

Sapete che il termine ‘precisione’ è etimologicamente definito dall’attività preferita dei chirurghi? Deriva infatti dal latino, praecisiōne ‘taglio, recisione’, derivato di praecidĕre ‘tagliare’: esattezza assoluta, assenza di qualsiasi errore, accuratezza, meticolosità nel fare qualcosa attraverso l’eliminazione degli elementi superflui, dei contorni in eccesso.

E sapete perché precisione e chirurgia sono vecchie compagne? Perché nulla è lasciato al caso. L’attenzione millimetrica al dettaglio va a braccetto con l’applicazione pratica di quella che nel mondo delle chirurgie ne è, a mio modesto parere, la regina incontrastata: la neurochirurgia.

E’ una cura scrupolosa che non si traduce in un’ansiogena ricerca del dettaglio fine a sé stesso, ma che si sposa con il raggiungimento di un obiettivo complesso, mantenendo in questo contesto un’aura quasi mistica di leggerezza. Ed è così che prendono vita le parole di Calvino: “la leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso.”

 

Lo sapete, mi piace prenderla alla larga. Tanti orpelli per decorare il fulcro centrale.

Ebbene, in questi primi mesi da specializzando di neurochirurgia ho avuto spesso questa concezione di precisione sotto gli occhi ma, forse, mai tanto quanto un weekend in cui ero di guardia.

Se vi dicessi che, solo a ripensarci, il mio ritmo sinusale tentenna perdendo qualche battito?

 

Non è un eufemismo.

Chiedetelo al me di quella domenica mattina, spaventato e stordito, elettrizzato e pietrificato al tempo stesso.

Chiedetelo allo strutturato di guardia e al reperibile che ho affiancato in quell’intervento, che con una calma e un’esperienza invidiabile hanno saputo gestire la fantomatica situazione da “emergenza assoluta”.

Chiedetelo agli anestesisti di sala reperibili, abituati a sfide mediche indicibili, ma che, in casi come questo, incrociando quegli occhi ti rendi conto che anche loro percepiscono l’enormità del momento.

Chiedetelo ai medici di PS, che hanno dovuto accogliere una circostanza non frequente ma che, con rapida professionalità, hanno modulato il percorso di quell’emergenza.

Chiedetelo a quel cucciolo d’uomo che ha visto nel giro di poche ore il suo mondo collassare in un nauseante e pericoloso vortice verso un sonno senza sogni e dal tortuoso risveglio.

 

Non voglio soffermarmi sui tecnicismi chirurgici. 

Voglio indugiare sul silenzio concitato che ha animato improvvisamente una domenica qualunque: sul rapido incedere di un’emergenza che necessitava di un intervento salvavita di lì a poco. 

Voglio attardarmi a ripensare a quel semplice gesto: alla precisa aspirazione di pochi cc di liquor in eccesso che è stata in grado di dare agio ad un giovanissimo cervello in difficoltà, potendo così dar tempo ad intervenire in maniera più mirata.

Voglio sostare su quelle mani, si, anche le mie mani, che si affaccendano su quel piccolo corpicino: dall’incisione cutanea a livello frontale destro, al foro craniotomico, al catetere prossimale, a quella valvola in difficoltà, all’ansia di tenere in sede a livello del tramite craniotomico con quel klemer coperto il catetere ventricolare, a quella minuta cavità addominale, a quelle fastidiose aderenze tra gli strati profondi addominali, all’introduzione del nuovo sistema, alla silenziosa gioia nel constatare la ripresa di una normale funzionalità del supporto salva-vita, alle fasi di chiusura dell’incisione, ai miei punti in dafilon su quella cute che a livello cranico aveva subito fin troppi maltrattamenti, alla medicazione compressiva che con cura copriva il tutto, al gesto, quasi amorevole, di aprire le palpebre e verificare il fisiologico diametro pupillare bilaterale…

 

 

…respira.

 

Non una ma più volte, al termine dell’intervento, ho avuto la necessità di guardare quelle pupille.

Più volte per accertarmi di aver riacciuffato quella piccola vita.

Più volte per sincerarmi, insieme agli altri operatori, che avevamo agito al meglio.

Più volte per poter incrociare lo sguardo di quegli anestesisti, che ci avevano supportato incredibilmente in quelle interminabili ore, e poter così sorridere con gli occhi: “si, l’emergenza è rientrata, ora possiamo davvero respirare”.

 

Vivere ore del genere, non come semplice spettatore in un angolino, ma come parte attiva, come elemento di un ingranaggio meccanicistico oliato alla perfezione è a dir poco incredibile. A volte mi chiedo come sia possibile essere da questa parte, come è possibile che in così poco tempo abbia la fortuna, l’incredibile possibilità di essere un elemento nel disegno di attuazione di un vero e proprio miracolo.

Un miracolo che si attua solo per l’essenziale concretezza dei suoi protagonisti che si traduce in rapide e definitive scelte. Un po' come era solito dire Victor Hugo: “concision dans le style, précision dans la pensée, décision dans la vie” [Concisione nello stile, precisione nel pensiero, decisione nella vita].

Un monito che, se ci pensate, ha un impatto devastante: essere chirurgicamente precisi nell’escludere ciò che oscura o semplicemente nasconde l’essenziale.

 

Facile nascondersi dietro alla massima de “l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Non ci ho mai creduto, a essere sincero.

 

A maggior ragione dopo aver vissuto quella mattina.

A maggior ragione dopo essere stato partecipe di un intervento chirurgico che, nella sua concisa essenzialità, ha permesso a quel bambino di potersi poi svegliare e ritornare a comunicare coi propri genitori.

L’essenziale deve essere la bussola che guida la precisione: quella chirurgica non ha solo applicazione in un’asettica sala operatoria.

Penso, anzi credo fermamente, che questo approccio sia utile anche nel quotidiano. Spesso ci addormentiamo in una grigia normalità senza che ci sia il coraggio di riflettere, senza che ci sia lo stimolo per chiedersi chi si è per davvero, perdendo l’abitudine di guardarsi allo specchio per togliere così i contorni e arrivare all’essenziale. Ecco allora che va creato lo stato d’emergenza: che sia una poesia letta per caso, una canzone ascoltata a tutto volume sulla strada di ritorno, un’alba schermata dalle vetrate sporche di un anonimo ospedale, una domenica qualunque sconquassata nella sua normalità da una piccola creatura bisognosa di cure straordinarie.

 

Certo, incidere con fermezza per asportare l’ombra non è attività da primo giorno da specializzando: richiede il suo tempo, fatiche, lacrime, sudore, sorrisi. Ma, per questi apparenti limiti, non dobbiamo lasciarci impaurire.

Perché vi assicuro che questa evidenza dell’essenziale si tradurrà nel nostro personalissimo miracolo.

 

Perché la gente fa tanto caso ai miracoli ?
Per quanto mi riguarda io non conosco altro che miracoli,
sia che passeggi per le vie di Manhattan,
o levi il mio sguardo sopra i tetti, verso il cielo,
o sguazzi coi piedi nudi lungo la spiaggia, proprio sul filo dell'acqua,
o mi fermi sotto gli alberi, nei boschi,
o parli, di giorno, con chi amo, o dorma, di notte, accanto a chi amo,
o sieda a pranzare a un tavolo insieme ad altri,
o getti uno sguardo agli estranei che viaggiano in tram di fronte a me,
o spii le api che nei pomeriggi d'estate si affaccendano intorno all'alveare,
o gli animali al pascolo nei campi,
o gli uccelli, o gli straordinari insetti dell'aria,

la meraviglia del tramonto, le stelle che brillano placide e luminose,
o la delicata sottile curva della luna nuova in aprile;
queste cose, e le altre, una e tutte, sono miracoli per me,
a tutto si riferiscono anche se ognuna è distinta dalle altre,
e al suo posto.

E' un miracolo per me ogni ora di luce e di buio,
è un miracolo ogni centimetro cubo di spazio,
ogni metro della superficie terrestre è impregnato di miracolo,
formicola di miracoli ogni centimetro del sottosuolo.

Il mare è per me un miracolo senza fine,
i pesci che nuotano - gli scogli - il moto delle onde -
le navi che portano gli uomini,
quali i miracoli più strani di questi ?

W. Whitman



domenica 7 marzo 2021

Prospettiva

Avete mai avuto il coraggio di cambiare prospettiva?

Vi siete mai trovati catapultati ad assistere lo scorrere del tempo da un punto di osservazione diverso a quello a cui eravate abituati? 

Così rapidamente, così vorticosamente che non avete avuto il modo di riorientarvi nel nuovo sistema di riferimento, e vi sentite persi, confusi, disorientati che manco l’arguto sguardo di Legolas Verdefoglia riuscirebbe a riportarvi sulla strada cui eravate abituati.

 

Beh, se vi è capitato sono certo potrete condividere con me che non è sempre immediato adattarsi.

Tremendamente faticoso, estremamente poco agevole.

 

Ma proprio per questo, straordinariamente unico.

 

Mercoledì scorso è stato il mio primo giorno ufficiale da specializzando in sala operatoria.

Con un’ottima progressione per gradi, ho trascorso il primo mese in affiancamento per l’attività di reparto con l’acquisizione graduale di autonomia chiaramente ancora da rinsaldare. E ora, comincia anche il percorso di affiancamento in sala.

 

Sto scrivendo queste righe a distanza di qualche giorno, nella comodità del divano di casa.

Credetemi però se vi dico che l’emozione di aver vissuto un giorno come quello, è stata così intensa, da non poter in alcun modo scemare. Anzi, in un certo modo si è quasi rinforzata: come se quell’onda impetuosa si fosse cristallizzata in una scultura maestosa, come quelle di un’epoca che fu, come se la volontà di perdersi negli occhi scrutatori di quella ferma figura fosse in realtà un richiamo magnetico per tornare ad esperire una delle sensazioni più pure.

 

Forse qualcuno potrebbe chiamarla esagerazione.

Io la chiamo naturale completezza.

 

Non prendiamoci in giro: ero così agitato che a momenti non sapevo più come si indossavano i guanti sterili, senza parlare di quanto imbarazzante è stato chiedere che mi togliessero gli occhiali perché si appannavano ogni volta che respiravo nella mascherina...raga che inizio trionfale!

 

Dopo un attimo di assestamento, mi sono stabilizzato.

O meglio, ho ricoperto una posizione nuova, un posto che avevo visto solo da lontano: a lato del capo del paziente, come operatore, come aiuto allo specializzando grande nelle fasi di apertura e chiusura e come spettatore privilegiato durante le fasi centrali dell’intervento.

 

Sono sterile, di fianco a una persona la cui vita verrà inevitabilmente stravolta da un intervento neurochirurgico. 

 

Paziente in posizione prona, con capo fissato in testiera a tre punti di Mayfield. Accurata disinfezione. Somministrazione di anestetico locale lungo i margini di quella che sarà l’incisione. Acquisizione dei reperi intra-operatori in neuronavigazione.

 

Respira. Trattieni il fiato. Prendi una garza e l’aspiratore.

Sono le 10:24.

Si incide. Segui il percorso segnato dal bisturi nelle mani dello spec grande.

E così, in un rapido concerto di movimenti, dall’incisione arciforme a cerniera inferiore, si dissezionano gli strati epicranici con successivo ribaltamento del lembo miocutaneo, si eleva il periostio, ed eccola lì: l’immacolata e inviolabile superficie cranica.

 

Inviolabile, fino a prova contraria.

 

Già mi sembra di vivere un sogno ad occhi aperti, anche per il solo fatto di concentrarmi e aiutare lo specializzando che come primo operatore sta raggiungendo il piano della lesione da asportare.

E poter ripercorrere così, ogni singolo momento...mi credete se vi dico che mi vengono i brividi?

È, per assurdo, l’emozione più ardua da tradurre a parole!

Nonostante si tratti di un’attività tra le più pratiche e concrete che esistano: ma non è forse questa la magia più pura? Quella di non trovare la definizione da vocabolario per accreditare significato e dare essenza vera a quella situazione, un po' come quei legami che nascono per caso e si trasformano in un’incredibile epifania di sensazioni, indecifrabili.

 

Ma torniamo a quella stanza piastrellata.

Asettica.

Inodore.

Meravigliosa.

 

Craniotomo alla mano, ed in men che non si dica, si effettua una precisissima craniotomia quadrangolare centrata sulla lesione. Si ribalta l’opercolo osseo ed ecco la delicata e robusta dura madre ci accoglie, segnalando l’ultimo accesso al sancta sanctorum che come avidi cercatori di tesori, violeremo da lì a poco.

Dobbiamo incidere la dura, chiamiamo lo strutturato.

 

Chiudo gli occhi, solo due secondi.

Mi lascio invadere dai ritmici beep dei marchingegni degli anestesisti, lì dietro di me: nonostante le volte in sala da studente, non mi ero mai soffermato sulla delicata armonia di questi suoni artificiali.

Ma forse perché non vivevo la sala, in quella prospettiva.

 

Riapro gli occhi, lo strutturato si è lavato e ha preso il posto d’onore, direttamente davanti al capo della paziente e noi due specializzandi, al suo fianco, uno a destra uno a sinistra, quasi come immortalati in un dipinto di un’era passata.

 

Si incide la dura madre con un bisturi sottile, con una delicatezza quasi da far paura: il parenchima cerebrale è li sotto, e aspetta solo un nostro invito per emergere.

Eccolo, a braccetto con la frequenza cardiaca, ritma e si espone, anche un po' troppo: è per colpa di quella dannata lesione nelle profondità oscure, che lo spinge in maniera inconsueta, patologica.

Si individua un solco satellite, e in quattro e quattr’otto mi ritrovo a guardare il campo operatorio attraverso due oculari!

No, non sono stato così pollo da richiedere i miei occhiali così da cadere ancora nell’inganno della foschia della lente.

No, è stato posizionato il microscopio operatorio: un supporto tecnologico che ingrandisce ed illumina la regione permettendo di lavorare con estrema precisione nello spazio di pochi millimetri.

Si, avete letto bene: pochi millimetri! Avete capito di che minima distanza stiamo parlando?

Si ovviamente, direte voi.

Beh, lo pensavo anche io, solito illuso che non sono altro.

 

Vi assicuro che non si può avere totale coscienza del significato di pochi millimetri finchè non si ha modo di avere lì, a un palmo di naso, le mani dello strutturato che trovano un tragitto sicuro, in pertugi strettissimi per poter asportare la lesione e preservare l’encefalo sano.

 

E la ricerca di questo percorso avviene tramite corticectomia della porzione in esame.

La lesione è evidente, quel grigiore malefico che deturpa il roseo parenchima.

E allora l’azione si fa più frenetica: disseca, coagula, aspira, rimuovi e riparti. 

E io inebetito, ad ammirare tutto quanto stava accadendo, non riuscendo a realizzare la nuova prospettiva con la quale schermare la situazione che stavo vivendo.

I minuti passano con una velocità disarmante, l’asportazione prosegue imperterrita finchè a un certo punto le luci vengono spente. 

Si accende una particolare luce tramite il microscopio.

 

Sipario.

 

Brillano con una colorazione fluorescente i residui della lesione che erano sfuggiti al primo approccio perché nascosti, o difficilmente visibili: questo è stato possibile grazie a un tracciante particolare, la fluorescina sodica iniettata endovena e in grado di identificare proprio le porzioni patologiche.

Ora immaginatevi che genere di eccitazione si può provare davanti a tutto questo: alla possibilità di incrementare l’efficacia di un intervento così invasivo e a tratti pericolosissimo, alla concreta ipotesi di minimizzare i danni al parenchima sano così da permettere un risveglio senza nuovi deficit neurologici…riuscite a trovare le parole? 

Ottimo, se avete pazienza allora ditemele voi: io ho ancora quella xerostomia che è segno di quelle emozioni forti che ti impastano così tanto il cavo orale da non poter spiccicare parola alcuna.

 

Non abbiamo più porzioni brillanti. 

Lo strutturato si slava, tocca a noi due spec controllare l’emostasi e chiudere. Mi distolgo da quello stupor da ‘OmioDiochefigataspazialenoncipossocredere’ e mi attivo per essere un supporto efficace: aspira, coagula, aspira, coagula.

Una ripetitività di movimenti che fa rima con i più aggraziati gesti di una ballerina di danza classica.

Si sutura la dura madre, rinforzandola inferiormente con graft di pericranio autologo. Appensione durale ai bordi della craniotomia. Manca la porzione finale, l’opercolo osseo: si effettua un’osteosintesi con placche e viti ed emostasi dei piani epicranici. Suture per strati e chiusura.

 

Fine intervento.

Posso riprendere a respirare.

 


L’apnea più lunga della storia: 145 minuti di pura emozione.

Ma forse è la nuova prospettiva ad aver dato colore a un anonimo mercoledì invernale.

In una sala operatoria di un ospedale qualunque.

La nuova angolazione che ha svelato una visione che da tanto tempo cercavo e che era solo dentro di me, ora è reale, palpabile, viva e con la forza dirompente della più violenta delle cascate, mi travolge in un preziosissimo turbinio di emozioni.

Vere. 

Incredibili.

 

E allora avevano ragione i fratelli Gallagher a cantare così

.. Slip inside the eye of your mind

Don't you know you might find

A better place to play

You said that you'd never been..