domenica 20 febbraio 2022

Tra dieci anni

E quindi tra dieci anni?

Ritrovarsi con gli amici di sempre mentre sorseggi un amaro ghiacciato e ti culli dei ricordi di una vita lontana, improvvisamente essere circondati da neo diciottenni che festeggiano l’inizio di un capitolo affascinante quanto misterioso della propria vita, ti obbliga a fermarti.

Ti obbliga a chiudere gli occhi e sforzarti di immaginare quello che verrà.

“Sicuramente io voglio esplorare l’Estremo Oriente – Ah beh io sicuro il Coast to Coast e una nuova casa con un cane di grossa taglia – Beh, io non voglio abbandonare né il mio progetto musicale né quello culturale e farli crescere ancora...”

 

Non si tratta di uno sforzo sovrumano in realtà: ombre un po' indistinte che si stagliano tuttavia su uno sfondo ben chiaro che assume le tinte del meraviglioso presente.

Un oggi tratteggiato dalle linee sicure dell’asettico regno dei craniotomi e delle pinze bipolari, dalle definizioni in bianco e nero di cervelli in difficoltà, dalla dinamicità di gesti sicuri e salvavita esploranti le maestosità di quella massa gelatinosa portatrice dei più reconditi misteri dell’essere.

I giorni che si susseguono indistintamente mi permettono di focalizzare l’attenzione su circostanze fugaci che categorizzano il mio divenire e che voglio si mantengano tali e quali, anche fra dieci anni.

 

Da un mese ho iniziato il mio secondo anno come specializzando in neurochirurgia.

E passano le ore in sala operatoria e questa diventa sempre più affascinante ed entusiasmante, avvolta dal caso, dall’ansia mista al mistero. Meno scienza, meno gaia di quanto si pensi, più umana. Un’umana troppo umana scienza.

Perché ritrovarsi nelle 48 ore di turno del weekend a gestire con lo strutturato di turno, un’emergenza dietro l’altra senza avere il tempo fisico di bere un goccio d’acqua.

Perché ritrovarsi ad eseguire da solo un intervento di evacuazione di un ematoma in una paziente che potrebbe essere la tua dolce nonnina.

Perché assistere da secondo operatore ad interventi chirurgici che sfruttano vie anatomiche impensabili per asportare i maledetti -omi senza lasciar traccia di sé né comportare così complicanze problematiche.

Perché ritrovarsi da un giorno all’altro ad essere tu quello che cerca di insegnare il poco che sai ai nuovi colleghi cercando di ricordare loro l’importanza di mantenersi umani, nonostante tutto.

 

Perché tutto questo è dannatamente incredibile, un meraviglioso e colorato arazzo che si completa filo dopo filo con i fermi punti di sutura che scandiscono le mie giornate.

 

Il tenace freddo di un sabato sera invernale si inserisce tra i sogni di quattro vecchi amici.

Ma non interrompe il flusso di sogni di chi già ha visto la propria vita evolvere e prendere delle pieghe inaspettate e meravigliosamente proprie.

Pieghe nel tempo della quotidianità, che assumono i connotati della necessità di mantenersi saldi nelle proprie certezze.

Certezze che, personalmente, fanno rima con l’azzurro di quella sala, teatro di mille avventure cariche di tensione e inaspettata gratificazione, oltre che alla luce del sorriso di chi mi aspetta a casa con dolce tenerezza per stringermi in un abbraccio che sa di infinito.

 

E quindi tra dieci anni?

 

Non cambierei una virgola di ciò che sto vivendo appieno, forse condito da un sottofondo fonemico differente e pertanto da un quadretto culturale discrepante dall’attuale. Ma, inevitabilmente, con il medesimo insistente entusiasmo che mi tiene incollato un sorriso da ebete nonostante le innumerevoli ore passate in piedi, scomodo, in tensione, ad aiutare a salvare una vita.

 

L’alcol ghiacciato scende e scalda improvvisamente.

Le voci di chi è cresciuto con te si allontanano.

Gli occhi si chiudono.

Il delicato e intricato circuito di Papez riporta alla luce ciò che è stato, ciò che mi ha permesso di essere qui, ad avere la fortuna di pensare a cosa potrebbe essere il futuro.

 

E non si può non sorridere se pensi a quell’estate in cui ho dovuto ripetere cinque volte l’esame di fisiologia. A quella prima volta in un reparto a decriptare un ECG. A quelle lezioni infinite e alle sessioni d’esame che scandivano i miei anni mentre, invidioso, osservavo inerme il mondo che palpitava fedele al suo tempo scandito da tante vite che arrivavano a sfiorarsi per un attimo. A quel casuale tirocinio estivo a sostituire organi in una chirurgia dei Trapianti a dir poco all’avanguardia che mi avrebbe fatto cambiare tutto. E ritrovare me stesso. A quel timore reverenziale ad attraversare le porte del reparto di Neurochirurgia da studentello spaventato. A quel primo incontro ravvicinato con un cervello. E la tesi e la pergamena e la corona d’alloro. E la pandemia. E il primo lavoro da medico in Guardia Medica in un territorio, il mio, martoriato da un virus invisibile, inafferrabile, incontenibile. E il primo farmaco prescritto e somministrato. E i primi pazienti. La fiducia, incredibilmente sincera, restituita da un paio d’occhi in cerca di aiuto e rassicurazione. E gli altri impieghi da giovane medico terrorizzato, nelle mie montagne. 

Il test di specializzazione. E l’attesa snervante, e poi la conferma, e l’incredulità conseguente. E il trasloco. E la nuova vita. Dalla prima guardia da solo in reparto alla mia prima DVE. A un nuovo amore. Al mio primo adenoma ipofisario da secondo operatore ai numerosi ematomi sottodurali acuti. All’esame di passaggio. Alle 48h di weekend scandite da tragedie umane. Al sottodurale cronico bilaterale in solitaria di venerdì. 

A quell’amaro servito nei dedali della mia vecchia città con amici lontani anni luce dal tuo mondo, ma mai così vicini alla tua vita.

 

E quindi tra dieci anni?


Può spaventare fermarsi a pensare. 

Può paralizzare riconoscere che le variabili per la definizione di futuro, sono tutt’altro che ben chiare.

Non nascondiamoci.

Ma è forse per tutto questo che, fantasticare sul proprio futuro, ha ancora un valore più importante. Quello delle incalcolabili possibilità, del fatto che tutto è ancora modificabile, che ogni giorno inizia con una pagina da poter scrivere e cancellare innumerevoli volte.

Se penso alle sensazioni di distacco completo dal trascorrere del tempo quando mi ritrovo catapultato in quella stanza piastrellata e gelida, non penso di voler provare altro per il resto della mia vita. Che sia per la soddisfazione, finalmente, di riuscire ad orientarmi meglio quando ci si addentra nella regione sellare attraverso le intricate vie endoscopiche; che sia per la mano tremante nell’apporre i miei primi punti di sutura con quel filo sottile su quel sottile strato di dura madre.

Tutto vibra alle stesse frequenze dell’infinito che possiamo riscontrare in ciò che, in ciascuno di noi, ci rende vivi.