martedì 1 novembre 2022

Evolvere

Evoluzione è la traduzione dinamica di rivoluzione. È la possibile forza motrice che induce a ragionare su se stessi, su ciò e su chi ci circonda e, così facendo, a imporci di fermarsi per ripartire più sicuri di prima, più saldi e in un certo qual modo, anche più se stessi.

Evoluzione è vivere il tramonto di questo secondo anno di specializzazione in neurochirurgia con la consapevolezza che qualcosa sta prendendo sempre più piede nell’idea generale del mio pensiero di futuro, condito dall’evolversi quotidiano del necessario legame che mi sorregge imperituro senza dimenticare di come questo fornisca angoli di prospettiva sull’oggi che sanno di persistente fiducia nell’oggi così come nel domani.

 

Evolvere spaventa.

Evolvere crea disagio, perché annienta le pretese del presente sulla staticità di essere stabili in un posto, in un momento preciso.

Evolvere inventa possibilità: attimi che tolgono le basi della sicurezza ma che non sono tuttavia scevri dal garantire opzioni invitanti.

Evolvere pesa 720 grammi e copre una distanza di 2858 km in 15 giorni.

 

Con la mente volo e volteggio in quel viaggio che, fianco a fianco, ci ha permesso di svegliarci in panorami magici ad assaporare storie, leggende, natura, vite sconosciute. Quelle due settimane ad alternarci alla guida a spezzare il silenzio quasi religioso di sperduti villaggi normanni e bretoni per poter giungere, con occhi sognanti, alle nostre incredibili mete.

Viaggio a quei momenti, a quando incrociavamo lo sguardo, condividevamo il sorriso, ridevamo assieme e ci stringevamo forte nella brezza violenta di un oceano mai indomito e di città dai millenari scenari senza tempo. E quei giorni dal gusto ricercato delle specialità burrose del posto, non sono stati meri momenti di evasione ma concreti attimi di evoluzione.

Respiri, risate, chiacchiere, silenzi…

Il tutto a cornice di un sentimento che, prorompente come quelle cattedrali nel cielo, si imponeva sempre più statuario e fluido. A sottolineare come amare sia la congiunzione evolutiva perfetta per ciò che chiamiamo quotidiano e che svela continuamente il suo incantesimo nel rendere straordinario l’ordinario.

 

Perché è facile apprezzare quando si è anni luce dal fastidio delle sveglie all’alba e dai rientri a casa quando fuori il mondo dorme.

E’ proprio in quei momenti giornalieri, che ciò che l’evoluzione naturale di noi ha visto in quelle due settimane, ti permette di tradurre con una chiave di lettura preziosa ciò che altrimenti sarebbe solo motivo di abbandono e lamentele senza fine.

Io lo vivo così: l’evoluzione di noi è destino che si fa presente, è sutura a tenuta che unisce i pezzi, è mezzo per rivalutare tutto.

E ti permette di ricordarti ciò che fai, ciò che stai diventando.

Ti fa sentire giusto, ti spolvera di dosso paranoie e infiniti pensieri di non essere all’altezza, ti garantisce di tornare a respirare, non solo galleggiare inerme nella vastità del quotidiano ma a nuotare fieramente a pelo dell’acqua, con sicurezza e una nota di fiducia per ciò che sarà.

Quella delicata carezza che come la più vetusta e potente delle magie è in grado di sciogliere i nodi che ti tengono ancorato ad un terreno fangoso che ti trascina a picco con le tue incertezze e paure, permettendoti così di liberarti e volare.

Volare indomito.

Come quel pomeriggio in cui mi sono ritrovato in un micromondo dalle temperature tropicali.

Un clima obbligato per permettere a un microscopico cucciolo d’uomo di 720 grammi di resistere alle intemperie del mondo esterno che, sfortunatamente, necessitava del nostro intervento di meccaidraulici di cervelli. 

M. così fragile da non riuscire a resistere al trasferimento nella familiare sala a piastrelle verdi in evidenza, ma con la necessità di essere operata.

Per cui ecco, quella che prima era la culla riscaldata, l’ambiente più sicuro in cui provare a sostenere le difficoltà che la vita impietosa le aveva lanciato, ora si trasforma nel campo di battaglia più crudele e più arduo da superare e sostenere.

In men che non si dica, la strumentista con delicatezza ammanta di teli di verde acqua tinti la culla, lasciando scoperta la sola testolina che prima si era trasformata nella tela dello strutturato che seguivo: con un piccolo pennellino aveva tratteggiato i riferimenti anatomici di cui avremmo necessitato in questa fase, i limiti che avremmo sfruttato per condurre l’intervento chirurgico in sicurezza date le già molteplici situazioni che si stavano mettendo tra noi, M. e il buon esito della procedura.

Ed eccoci, lavati e sterili, adagiarci dolcemente sul capo di M.

 

Incidi, solleva, coagula, taglia.

Inserisci, fissa, alloggia, controlla.

Ricontrolla, coagula, sutura.

Medica.

 

C’è chi potrebbe minimizzare l’atto chirurgico in sé come semplice e tecnicamente non ricercato. C’è chi potrebbe minimizzare il significato di intervenire su un essere umano così fragile, intendendo ogni procedura come un accanimento sfrenato.

C’è chi forse ancora non ha capito di cosa stiamo parlando.

 

Evolversi al di sopra del sentire comune per lottare e concedere una chance a tutti, anche a chi aveva troppa fretta di respirare l’aria corrotta di questo mondo.

Evolversi a tal punto da individuare ogni singolo punto di cute come il prezioso atto di cura verso chi lotta con ogni fibra del suo microessere per poter un giorno, prendersi a sua volta cura dei propri cari.

Evolversi per poter individuare in ogni istante di questa delicata sezione delle neurocosechirurgiche l’attimo in grado di fornirti la forza che egoisticamente ricerchi per poter avanzare, giorno dopo giorno.

 

Ed è in questo connubio di sensazioni che derivano dal quotidiano e da quelle che sono le due dimensioni delle mie giornate che si trova il risultato perfetto dell’equazione, il cui esito vado ricercando costantemente.

È un percorso ad ostacoli, una staffetta in cui il totem presente ad ogni angolo è celebrazione della fragilità: credo sia normale avere paura di vivere tutto questo, è un'emozione che è giusto provare, perché siamo esseri umani, fragili e insicuri, ma per questo vivi. Ed è così che evolviamo nella miglior versione di noi stessi, solo se abbracciamo la fragilità che è sinonimo dell’essere umani. 

Ovvio, personalmente tutti gli sforzi, tutte le fatiche avrebbero difficile significato se non in un quadro di più ampio spettro che vede lei, tratteggiare con delicatezza i margini del giusto.

Le emozioni che vivo tramite lei sono il linguaggio attraverso cui si comunica con sincerità, mettendosi a nudo, senza timore di mostrarsi fragili e indifesi così come quei minuscoli esseri che tanto stanno rubandomi il cuore. Perché la fragilità è la nostra forza, in un mondo trascinato dalla ragione verso la competizione estrema, ci garantisce di evolvere al di là di confini imposti per imporre invece noi stessi, come il respiro che delicato e flebile sostiene impavido la sostanza di una vita in meraviglioso divenire.

sabato 30 aprile 2022

Crescere

Crescere è l’unica testimonianza di vita.

La felicità non è nè la virtù nè il piacere nè questa cosa o quell’altra ma semplicemente crescita, siamo felici quando stiamo crescendo.

Modulare le proprie giornate in base allo scorrere impetuoso e inafferabile del tempo.

Definire le proprie ore nell’evolvere di vite che intrecciandosi, creano un arazzo complicato e bellissimo.

 

Crescere.

 

E imbattersi in inciampi che possono rallentare lo sviluppo del proprio domani, come una macchia che fastidiosa altera i fotogrammi su una polverosa pellicola di un film di tempi passati.

E riuscire, nonostante questi temporanei rallentamenti, ad apprezzare l’esistenza nel suo significato più profondo: così da non vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Vivere invece, profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.

Ai suoi termini più essenziali così da ammirarne i contorni più precisi e delicati.

 

Crescere.

 

Ed è così che, in uno slancio di personale confessione, il vortice dei giorni del mio ultimo periodo mi induce a battere sui tasti del mio vecchio pc per ritrovare la direzione dei miei giorni che qualcuno, dolcemente e amorevolmente, già riesce quotidianamente a ricordarmi.

 

Da dove partire?

Dall’enorme meningioma falcino asportato come secondo operatore dopo una brividante craniotomia sul seno sagittale superiore? Da weekend di turno caratterizzati da quasi 48h di urgenze in sala operatoria? O forse dall’assurdo caso d’urgenza neurochirurgica di un profugo ucraino della tenera età di 17 mesi? Magari dalla scomparsa di una delle canute colonne portanti del fragile edificio che chiamo vita? O di quando a 17 minuti dallo scoccare del mio 28esimo compleanno sono stato chiamato per una di quelle urgenze da “opera veloce o muore il paziente”?

 

Non esiste un ordine di importanza quando si tratta di un coacervo di episodi, di sensazioni, di faccende umane che intersecandosi, ridipingono la rosa dei venti delineando quello che è un nuovo ma insostituibile riferimento.

Oggi, ora più che mai, il quinto punto cardinale è l’empatia.



È comunione affettiva quando la sera prima del giorno X, con lo strutturato primo operatore, ti interfacci con la famiglia della paziente che opererai per quella maledetta macchia grigiastra che non la fa più dormire e non le permette di prendere in braccio i nipotini. Una concordia di sentimenti che si prolunga in quella fredda azzurra sala piastrellata, teatro dell’opera più maestosa e delicata che mi ha visto come inaspettato primo violino nel violare, con le mie mani tremanti, quello che è il recondito santuario che ci rende umani. Un’evoluzione empatica tradotta al risveglio con l’incrocio di sguardi, carichi di riconoscenza e sincera gratitudine; tradotti in un recupero di energie di incredibile sostanza che le hanno permesso di riabbracciare con forza i suoi cari.

 



È partecipazione emotiva quando al termine di un infinito turno di weekend, vieni risvegliato dal sopore delle 19.30 dalla voce tonante del tuo strutturato: “Svegliati, c’è un bambino ucraino in PS  da operare!” E ti ritrovi a stropicciarti con vigore gli occhi, riassettarti alla bella e meglio la divisa, a volare giù da quelle scale e ritrovarti in quella furibonda Babele di vite nota ai più come Pronto Soccorso, e bloccarti nello sguardo implorante di un papà spaventato per i gravi sintomi del biondissimo figlioletto che, fuggito in fretta e furia dalle bombe del cielo, è capitato in un’ignota parte di mondo ad essere teneramente appoggiato su un tavolo operatorio per avere modo di vedere un nuovo giorno luminoso. E la serata evolve e mi ritrovo a fianco dello strutturato di notte ad aprire un bambino e a trovare il misfatto e a risolverlo. E nella notte incalzante, da solo, a suturare con delicato rispetto quell’incisione parietale destra, segno di un giorno da dimenticare, immagine di un frammento di vita che ha il coraggio di evolvere e di imporsi nel caos che permea l’oggi.

 

E ti ritrovi un giovedì di un timido inizio primaverile, mentre ti prepari ad assistere ad un intervento su un altro cucciolo d’uomo, un piccolino che ne ha già vissute troppe per i suoi 4 mesi, a ricevere quella notizia che non avresti voluto ammettere. La scomparsa di una figura che nella sua saggia presenza e nella sua imponente certezza in ideali trasmessi con l’esempio, mi ha fornito gli strumenti che anno dopo anno si sono affinati nella certezza per affrontare qualsiasi sfida, qualsivoglia ostacolo che la vita, talvolta furbescamente, lanciava improvvisamente.

C’è chi vede nei nonni, accessori da non richiedere un termine che ne specifichi la perdita, come se dei nonni non si sia né orfani né vedovi: come se il tempo vorticoso dei nostri giorni creati con lo stampino di un fabbro costruttore, imponesse per moto naturale di lasciarli lungo la strada così come per distrazione, lungo la strada, si abbandonano gli ombrelli.

Ma io mi ricordo la sera di quel 16 ottobre di 3 anni fa, al termine di una pazza giornata che sanciva la chiusura di un capitolo lungo 6 anni e l’inizio di un altro durevole una vita intera. Mi ricordo di quando ho varcato la soglia del tuo piccolo mondo e tu, con quell’occhio lucido e stanco, hai incrociato il mio sguardo e subito hai capito: ‘’ Arda lè ol me dutùr” (guarda lì, il mio dottore). E di tutte quelle volte che, alzando i decibel per poterci capire ridendo perché non sempre mi veniva il termine giusto nel tuo arcaico ed eterno idioma, ti raccontavo visto il tuo passato in officina, che foravo la testa alla gente con un trapano per curarla e tu ridevi “ pff, col me laurà ga rie po' me” (con il mio lavoro-esperienza, ci riuscirei anche io).

Come potrei anche solo pensare di abbandonarti sul ciglio di una scialba strada senza nome che ha percorso la mia vita. Come potrei anche solo immaginare di non ricordarti ogni volta che sono chiamato ad esercitare la mia manualità in quella tanto amata sala operatoria, dopo tutte quelle volte che al banco di lavoro della tua buia cantina mi facevi provare ad aggiustare ingranaggi o arsi dal sole estivo, curavamo delicatamente i germogli del tuo fazzoletto di terra.

Semplici parole per non lasciarti andare.

O forse si.

Per lasciarti andare ma garantendomi il modo di tenerti sempre con me.

Nonno.

La vita è crescita, anche quando si traduce nel ricordo di chi ti ha dato tanto, nel silenzio di un gesto, nella delicatezza di uno sguardo.

 


Crescere.

 

E ci ritroviamo con un salto temporale di poco più di 30 giorni all’altra sera.

Reperibilità la notte del compleanno. Ma sì, è da un po' che non ci sono urgenze notturne..vuoi mettere che proprio stanotte..

23:43. “Sergio, sottodurale acuto, GCS 6, anisocorico maggiore per destra. Lo stanno intubando in PS. Ti aspetto in sala.”

Respiro, mi sciacquo la faccia, un goccio di caffè che è solo da scaldare, la moka è sempre pronta e piena in casa nostra.

Volo in ospedale, mi cambio, cuffietta regalata da lei con i segni della Terra di Mezzo stampati come anatemi per scongiurare le scorribande del Male.

Preparo il necessario, arriva il paziente con lo strutturato. Rasatura, posizionamento, disegno la linea mediana e quella che sarà l’incisione frontotemporoparietale destra che ci permetterà l’accesso là dentro, proprio là.

Ci laviamo in silenzio. Un silenzio carico di angoscia mista a tensione e ferrea determinazione, mentre di là bip irregolari ci avvisano della triade di Cushing che impetuosamente si avvicina.

Coperti dai nostri manti sterili, oso mettermi nella posizione da primo operatore. Incrocio lo sguardo del mio strutturato, non una parola ma due occhi che mi confermano: “tocca a te, sai come fare!”.

 

Bisturi.

Raney. 

Bipolare.

Forbice.

Ribalto il lembo miocutaneo one-layer e lo stabilizzo con due ami.

Una frattura lineare si evince nel mezzo della porzione di cranio esposta, una linea che spezza la continuità come quel momento, un’incisura a sé stante nel tempo di quella notte.

Trapano. Due fori craniotomici, rapidi.

Craniotomo. Mano sempre un po' tremante in questa fase: se non appoggi e governi bene lo strumento potresti creare un bel po' di danni al parenchima sottostante. Creo la mia strada con un dissettore: piede sinistro sul pedale, mano destra sul craniotomo. 

Si parte. E in men che non si dica mi ritrovo con lo scollatore a ribaltare l’opercolo.

Si, non mi ricordo più come si respira.

Ma forse le cose progrediscono sufficientemente bene.

La dura madre sottostante è integra ad eccezione della porzione corrispondente alla rima di frattura ossea.

Pinze da dura, forbice.

Apro la dura a stella, ribalto i margini ed eccolo lì: l’enorme e spessa falda di ematoma che continua a comprimere il parenchima cerebrale, inducendo quella sofferenza diffusa. 

Lavo e aspiro e asporto con dissettore.

 

Secondi? Minuti?

Chi può dirlo. Chi ha avuto il tempo di contarli.

Coagulo qualche vaso corticale che getta.

Il parenchima è deteso, pulsa. I bip ora mi piacciono un po' di più. E il mio centro pneumotassico si ricorda di avvisarmi che si, posso tornare a una frequenza respiratoria umana.

 

Incrocio lo sguardo dello strutturato. Sorride. Io pure.

Buon compleanno a me.

 

Crescere forse è proprio questo. Procurarsi qualcosa che ti regali un po' di poesia, illusioni sparse e qualche intensa sensazione qua e là, ché la poesia costa poco, le illusioni aiutano a vivere e quelle sensazioni lì fanno bene al cuore.

E se hai la fortuna di condividere tutto questo.

Beh, allora hai trovato proprio l’Eldorado che si nasconde ai più.

Hai scovato il senso più vero di tutto: crescere, amando.

domenica 20 febbraio 2022

Tra dieci anni

E quindi tra dieci anni?

Ritrovarsi con gli amici di sempre mentre sorseggi un amaro ghiacciato e ti culli dei ricordi di una vita lontana, improvvisamente essere circondati da neo diciottenni che festeggiano l’inizio di un capitolo affascinante quanto misterioso della propria vita, ti obbliga a fermarti.

Ti obbliga a chiudere gli occhi e sforzarti di immaginare quello che verrà.

“Sicuramente io voglio esplorare l’Estremo Oriente – Ah beh io sicuro il Coast to Coast e una nuova casa con un cane di grossa taglia – Beh, io non voglio abbandonare né il mio progetto musicale né quello culturale e farli crescere ancora...”

 

Non si tratta di uno sforzo sovrumano in realtà: ombre un po' indistinte che si stagliano tuttavia su uno sfondo ben chiaro che assume le tinte del meraviglioso presente.

Un oggi tratteggiato dalle linee sicure dell’asettico regno dei craniotomi e delle pinze bipolari, dalle definizioni in bianco e nero di cervelli in difficoltà, dalla dinamicità di gesti sicuri e salvavita esploranti le maestosità di quella massa gelatinosa portatrice dei più reconditi misteri dell’essere.

I giorni che si susseguono indistintamente mi permettono di focalizzare l’attenzione su circostanze fugaci che categorizzano il mio divenire e che voglio si mantengano tali e quali, anche fra dieci anni.

 

Da un mese ho iniziato il mio secondo anno come specializzando in neurochirurgia.

E passano le ore in sala operatoria e questa diventa sempre più affascinante ed entusiasmante, avvolta dal caso, dall’ansia mista al mistero. Meno scienza, meno gaia di quanto si pensi, più umana. Un’umana troppo umana scienza.

Perché ritrovarsi nelle 48 ore di turno del weekend a gestire con lo strutturato di turno, un’emergenza dietro l’altra senza avere il tempo fisico di bere un goccio d’acqua.

Perché ritrovarsi ad eseguire da solo un intervento di evacuazione di un ematoma in una paziente che potrebbe essere la tua dolce nonnina.

Perché assistere da secondo operatore ad interventi chirurgici che sfruttano vie anatomiche impensabili per asportare i maledetti -omi senza lasciar traccia di sé né comportare così complicanze problematiche.

Perché ritrovarsi da un giorno all’altro ad essere tu quello che cerca di insegnare il poco che sai ai nuovi colleghi cercando di ricordare loro l’importanza di mantenersi umani, nonostante tutto.

 

Perché tutto questo è dannatamente incredibile, un meraviglioso e colorato arazzo che si completa filo dopo filo con i fermi punti di sutura che scandiscono le mie giornate.

 

Il tenace freddo di un sabato sera invernale si inserisce tra i sogni di quattro vecchi amici.

Ma non interrompe il flusso di sogni di chi già ha visto la propria vita evolvere e prendere delle pieghe inaspettate e meravigliosamente proprie.

Pieghe nel tempo della quotidianità, che assumono i connotati della necessità di mantenersi saldi nelle proprie certezze.

Certezze che, personalmente, fanno rima con l’azzurro di quella sala, teatro di mille avventure cariche di tensione e inaspettata gratificazione, oltre che alla luce del sorriso di chi mi aspetta a casa con dolce tenerezza per stringermi in un abbraccio che sa di infinito.

 

E quindi tra dieci anni?

 

Non cambierei una virgola di ciò che sto vivendo appieno, forse condito da un sottofondo fonemico differente e pertanto da un quadretto culturale discrepante dall’attuale. Ma, inevitabilmente, con il medesimo insistente entusiasmo che mi tiene incollato un sorriso da ebete nonostante le innumerevoli ore passate in piedi, scomodo, in tensione, ad aiutare a salvare una vita.

 

L’alcol ghiacciato scende e scalda improvvisamente.

Le voci di chi è cresciuto con te si allontanano.

Gli occhi si chiudono.

Il delicato e intricato circuito di Papez riporta alla luce ciò che è stato, ciò che mi ha permesso di essere qui, ad avere la fortuna di pensare a cosa potrebbe essere il futuro.

 

E non si può non sorridere se pensi a quell’estate in cui ho dovuto ripetere cinque volte l’esame di fisiologia. A quella prima volta in un reparto a decriptare un ECG. A quelle lezioni infinite e alle sessioni d’esame che scandivano i miei anni mentre, invidioso, osservavo inerme il mondo che palpitava fedele al suo tempo scandito da tante vite che arrivavano a sfiorarsi per un attimo. A quel casuale tirocinio estivo a sostituire organi in una chirurgia dei Trapianti a dir poco all’avanguardia che mi avrebbe fatto cambiare tutto. E ritrovare me stesso. A quel timore reverenziale ad attraversare le porte del reparto di Neurochirurgia da studentello spaventato. A quel primo incontro ravvicinato con un cervello. E la tesi e la pergamena e la corona d’alloro. E la pandemia. E il primo lavoro da medico in Guardia Medica in un territorio, il mio, martoriato da un virus invisibile, inafferrabile, incontenibile. E il primo farmaco prescritto e somministrato. E i primi pazienti. La fiducia, incredibilmente sincera, restituita da un paio d’occhi in cerca di aiuto e rassicurazione. E gli altri impieghi da giovane medico terrorizzato, nelle mie montagne. 

Il test di specializzazione. E l’attesa snervante, e poi la conferma, e l’incredulità conseguente. E il trasloco. E la nuova vita. Dalla prima guardia da solo in reparto alla mia prima DVE. A un nuovo amore. Al mio primo adenoma ipofisario da secondo operatore ai numerosi ematomi sottodurali acuti. All’esame di passaggio. Alle 48h di weekend scandite da tragedie umane. Al sottodurale cronico bilaterale in solitaria di venerdì. 

A quell’amaro servito nei dedali della mia vecchia città con amici lontani anni luce dal tuo mondo, ma mai così vicini alla tua vita.

 

E quindi tra dieci anni?


Può spaventare fermarsi a pensare. 

Può paralizzare riconoscere che le variabili per la definizione di futuro, sono tutt’altro che ben chiare.

Non nascondiamoci.

Ma è forse per tutto questo che, fantasticare sul proprio futuro, ha ancora un valore più importante. Quello delle incalcolabili possibilità, del fatto che tutto è ancora modificabile, che ogni giorno inizia con una pagina da poter scrivere e cancellare innumerevoli volte.

Se penso alle sensazioni di distacco completo dal trascorrere del tempo quando mi ritrovo catapultato in quella stanza piastrellata e gelida, non penso di voler provare altro per il resto della mia vita. Che sia per la soddisfazione, finalmente, di riuscire ad orientarmi meglio quando ci si addentra nella regione sellare attraverso le intricate vie endoscopiche; che sia per la mano tremante nell’apporre i miei primi punti di sutura con quel filo sottile su quel sottile strato di dura madre.

Tutto vibra alle stesse frequenze dell’infinito che possiamo riscontrare in ciò che, in ciascuno di noi, ci rende vivi.