martedì 31 dicembre 2019

La vita, palcoscenico dove giochi sul serio. (L. Pirandello)

È l’ultimo giorno dell’anno.
Puntualmente è il momento di quella sottospecie di rituale che prende le forme di ansiogene revisioni e speranzose promesse, personali propositi e ambiziosi giuramenti.
Una cornucopia di elenchi puntati sulle nostre note digitali e tante dita incrociate per quello che verrà.
Elenchi che trasudano aspettative, desideri profondi.

Se mi mettessi anche io ad enumerarvi i miei punti programmatici sarebbe troppo ovvio, scontato come il programma elettorale del più vecchio dei candidati.

Esame di stato a febbraio. 
Da superare.

Un lavoro temporaneo.
Da trovare.

Esame per l’ingresso in specializzazione. Luglio di fuoco.
Da superare.

Continuare con quel lavoretto fino a ottobre/novembre, periodo presunto di inizio specializzazione. 
Tassativo.

Trovare un buco per sopravvivere nella città che sarà il nuovo posto che chiamerò casa.
Il prima possibile.

Nel frattempo studia, studia forte non solo come preparazione ai test ma perché quando sarà quel primo giorno, quel fatidico primo giorno, voglio essere pronto.
Necessario.

È un indice di eventi che inevitabilmente scandiranno un anno ricco, come pregnante è stato l’anno che mi lascio alle spalle con quella corona d’alloro appesa in camera a ricordarmi come un monito sempre vivo, il traguardo che ha sancito la partenza di un nuovo capitolo.

Quello su cui però vorrei soffermarmi non è tanto questo insieme di situazioni, quanto piuttosto ciò che questo scatena.
Impetuosamente.
Vertiginosamente.
Meravigliosamente.

Inquietudine frammista a necessità. 
Bisogno di scoprirsi davvero.

Non fraintendetemi e non partiamo spaventati o terrorizzati per quello che verrà delineato.
Si, l'inquietudine è la condizione, che più di tutte in questi casi, si traduce in un senso di puro disorientamento, quella sensazione che ci mette in guardia sullo stato di stabilità, o instabilità, del nostro disagio e ci fa andare alla ricerca di un nuovo orientamento. 
Il disorientamento è una macchina generatrice, dalla quale originano improvvisamente riflessioni sulle decisioni da prendere nella vita.
Nuove situazioni, nuovi problemi e nuove realtà mantengono l'orientamento in un'inquietudine costante. 
Per questo l'inquietudine è l'atmosfera di base dell'orientamento, il cardine fermo della scelta.

Chi mi conosce bene, sa che programmare, stabilire in maniera ferma e indissolubile i singoli passi da percorrere, scegliere minuziosamente i pezzi che possano combaciare nell’intricato puzzle della quotidianità, definisce al meglio il mio personalissimo disturbo ossessivo.
Limato con anni di sorprese e puzzle non perfetti, questo mio atteggiamento totalitaristico verso la programmazione è andato via via modellandosi ad un approccio più realistico. Tuttavia, non posso prescindere dall’organizzare e vedere come tutto potrebbe non collimare con le aspettative: non è facile, mi disorienta. 
Sguardo inquieto verso l'orizzonte, mai
come limite ma come vivida opportunità
Completamente.

Se, come in questo anno che verrà, le situazioni non sono né prevedibili né calcolabili al 100% come invece poteva essere nei precedenti 25 anni, ecco ritornare prepotentemente l’inquietudine intorno alla domanda se ci si è orientati correttamente prendendo decisioni giuste; l'inquietudine può trasformarsi in paura di non aver preso la decisione opportuna. E la paura può degenerare, in casi estremi, in disperazione se il dubbio nei confronti delle proprie possibilità d'azione paralizza l'azione stessa. 

Si ma che quadro apocalittico, meno male dovremmo iniziare l’anno nuovo con una buona dose di speranza e desiderio di affrontare qualunque sfida!

E in effetti, l’inquietudine non è solo quello. Sta a ciascuno di noi direzionare con forza e vigore il senso di questa dispensatrice di stimoli.

Ho scoperto, con mio sommo piacere e grazie a un’amica pensatrice, che le parole di Heidegger in questo caso concentrano appieno questo vorticoso flusso di pensieri: era infatti solito dire che l’inquietudine è l’origine di tutto, da cui nessuno di noi può prescindere e che è necessario come rumore di fondo, come compagno indivisibile della nostra quotidianità. 
Da qui quindi due importanti concetti, tra loro concatenati.

Rileggiamo.
Respiriamo.
Viviamo.

Sul fondo dell'animo vibra un senso continuo di insoddisfazione, una specie di soglia di inquietudine: finché questa rimane a un livello basso, è tollerabile e persino positiva, giacché costituisce una molla all'azione e al mutamento e se possibile al miglioramento delle proprie condizioni. Quando però il livello dell'inquietudine sale troppo in alto, provoca una situazione di malessere che può trasformarsi in dolore intenso. 
Come quindi essere in grado di schermare tale forza primordiale?

Io credo, anzi, ne sono convinto, che la risposta sia antagonizzando uno dei cardini del pensiero pirandelliano.

Ripensiamo a chi siamo. 

L’essere umano non sa quasi mai cos’è! Se io chiedessi a qualcuno, così, di punto in bianco “Chi sei? Cosa ti inquieta?”, sono sicuro che difficilmente troverei un’anima così sicura di sé, ma perché l’inquietudine, il dubbio generato da quello che ci circonda, spesso soverchia il nostro essere e ci obbliga a vestire delle maschere.

Ecco, vi dicevo di Pirandello.
E di come un umile dissenso alla sua teoria delle maschere possa garantirci forse una visione ottimistica dell’inquietudine.

Indossare una maschera, una seconda pelle è nascondere agli altri e a sè stessi il vero io. È come un velo di Maya che non consente di conoscere la propria personalità. Nella realtà quotidiana gli individui non si mostrano mai per quello che sono, ma assumono una maschera che li rende personaggi e non li rivela come persone. La maschera non è che simbolo alienante, indice della spersonalizzazione e della frantumazione dell'io in identità molteplici, e una forma di adattamento in relazione al contesto e alla situazione sociale in cui si produce un determinato evento.

Ma se osassimo togliere questa maschera?
Se davvero affrontassimo con coraggio le nostre scelte, in quel mare magno di disorientamento che un nuovo anno può portare con sé?
Sono fermamente convinto che se adottassimo questa intrepida iniziativa, l’inquietudine di cui sopra, madre delle più ansiogene delle paure può in realta tramutarsi in un’amorevole genitrice della spinta più sincera a crearsi il proprio domani.

Pensateci un attimo.
Trova quel pertugio, per essere te stesso e
liberarti dalla maschera
Se ognuno di noi vivesse davvero appieno quello che l’oggi regala gratuitamente, senza aspettarsi nulla in cambio, togliendo qualsiasi schermo che filtra il nostro essere, non riusciremmo a vedere l’inquietudine che smuove l’ordinario come la forza motrice per un quotidiano straordinario?

Forse è troppo.
Ed è solo un pensiero di un vanesio che straparla.

O forse no.
È il necessario bisogno, una primordiale necessità.

“Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?”
(L. Pirandello)

Superiamo il limite che l’inquietudine figlia della novità può imporci, attraverso il coraggioso dispiegarsi del nostro vero essere, della rivelazione della nostra anima, lontana dalle esigenze di mascherarsi e nascondersi come il mondo oggi ci fa credere sia fondamentale.

È forse questo l’augurio più sincero che mi impongo per questo 2020 carico di misteriosi punti interrogativi e altrettante meravigliose scoperte da condurre tra le pieghe del tempo e dello spazio. 

Ed è l’augurio che voglio rivolgere a te, che con estremo coraggio e ardita follia, ti sei lasciato trasportare da questo fiume in piena che è la mia coscienza tradotta a parole.
È l’augurio che durante quest’anno tu possa riscoprirti come davvero te, sicuramente attraverso il raggiungimento di numerosi obiettivi, ma soprattutto tramite il coraggio di dedicarti del tempo per conoscerti, per indagare a fondo nella bellezza della tua anima e scorgere laggiù in fondo il tuo vero io.

martedì 24 dicembre 2019

Il pezzo di carta e una linfoadenectomia inguinale.

Un timido raggio fa capolino attraverso gli sporchi vetri di un treno che taglia la pianura con noncuranza della vita che gli scorre vicino.

Oggi è un giorno strano, diverso. Non sono andato in ospedale ma alla cerimonia di consegna dei diplomi di laurea che la mia università organizza annualmente.

La solita baggianata istituzionale, potranno pensare in tanti.
Ma io credo in qualcosa d'altro. L'ho vissuto piuttosto come un momento per riflettere davvero su quello che è successo qualche mese fa e ora è scritto in bella grafia su una pergamena che sa di antico.
Forse sono solo io che ho sensazioni un po' strambe.

Però ehi, sono rinvigorenti: perché non lasciarsi cavalcare da questa ondata di entusiasmo?

Il tutto per un pezzo di carta? Beh, cambierei articolo: IL pezzo di carta.
Quel pezzo di carta che significa sei anni di sveglia alle 5.30 e rientro quando compariva magicamente il treno o finiva l’attività, quel pezzo di carta che assume le forme dei tomi che mi hanno provocato qualche indigestione e altrettante soddisfazioni, quel pezzo di carta che nasconde tra le righe legami di sincera amicizia che non tutti hanno la fortuna di creare, di vivere.

Quel pezzo di carta..

Mentre scrivo e forse acquisisco sempre più quello che questo 2019 mi ha regalato, non posso non pensare a ieri e che forse rende giustizia e fa assumere a quel pezzo di carta un valore aggiunto.

Una giornata dai contorni dell’assurdo: iniziata alle 06:51 e conclusa alle 22:23.
Una giornata contraddistinta dall’ansia, dalla soddisfazione, dall’ansia, dall’ansia e dalla serenità.

Si ma ancora chirurgia generale?
Ebbene si, per questo mese di frequenza per i tirocini dell’esame di stato dovete sorbirvi qualche escursione in un mondo diverso da curiosi sintomi neurologici e altrettanto indaginosi interventi sul cervello. 
E’ tuttavia un mondo che lascia a suo modo senza parole, se uno ha il coraggio di lasciarsi affascinare. 
Parlo di coraggio, non a caso perché sto vivendo un assaggio del significato del termine 'chirurgo', di cosa si nasconde dietro quella divisa-pigiamino: un impalpabile figura forgiata dal coraggio più puro, che spero un giorno non lontano farà rima
con il mio futuro.
E’ un coraggio quasi incosciente, quello di trascorrere una media di 12-13 ore al giorno in un contesto, quello ospedaliero, che risucchia progressivamente le tue energie, ti sfianca ma d’altro canto ti dona tutto. 

Anche da semplice tirocinante, ne ho avuto un assaggio.
Uno di quegli assaggi che vorresti si tramutasse al più presto in un piatto succulento.
Un assaggio che ha il sapore di quella che tanti potrebbero etichettare come banale linfoadenectomia inguinale, per passare al piatto principale sotto le sembianze di un trapianto bipolmonare e per finire un intervento in urgenza, di quelli che fanno paura solo a sentirne parlare.

Vi chiedo scusa, quando ripercorro gli spezzoni di eventi così, non riesco a frenarmi, non voglio frenarmi: vuoi solo scrivere, spezzare i lucchetti che intrappolano malamente i pensieri, dando così loro una vita.
Un libero pensare tradotto a parole.

Ora vi racconto, con calma.
Forse.

La mia giornata è iniziata la sera precedente quando la strutturata di turno mi chiama al telefono per avvisarmi che mi aveva segnato nell’equipe dell’attività operatoria dell’indomani, causa mancanza di specializzandi.

Ok, ora immaginate un Sergio spaventato ed entusiasta allo stesso tempo: intervallavo momenti di lucida ansia dipinti da un continuo leitmotiv ‘ma che mi fanno lavare che io metto punti alle banane e ai mandarini?’ a sensazioni di esaltata gioia per cui ‘prendi al volo queste occasioni, che sono solo ora che cola!’
Un bipolarismo non piacevole che mi ha accompagnato involontariamente (o forse no?) per tutta la notte.

Una notte rapida perché la sveglia suona presto, che per l’attività operatoria devi essere pronto per le 7.30 in sala: pronti e via, cuffietta e mascherina indossata, sono pronto!

Il primo intervento è una linfoadenectomia inguinale per una sospetta recidiva di linfoma B follicolare. Chi è già stato in una sala operatoria di chirurgia generale, concorderà con me la benchè minima assenza di eccitazione in un intervento della durata massima di 20 minuti, rapido, indolore e tecnicamente facile.
Ok, aspiro, traziono, taglio, un punto qui, uno là: finito. 

Se è una giornata così posso sopravvivere dai. 
Sarà una giornata scandita da 20 minuti di lavoro: si va a casa presto suvvia.

Povero illuso.

Secondo intervento, indovinate un po'? 
Si, ci avete azzeccato: linfoadenectomia inguinale destra.
Mi preparo e mi metto sul lato controlaterale della sede dell’intervento così il primo operatore può lavorare indisturbato sul lato giusto. Peccato che appena arrivata la strutturata, si mette a sinistra e mi affianca. C’è qualcosa che mi sfugge, la guardo, mi guarda e un po' spazientita mi fa: ‘Che problema c’è? La prima volta guardi, la seconda lo fai! Su vai al lato giusto e togli quel linfondo.’

Ah, ok.
Da solo.
Un intervento chirurgico.
In un’area anatomica in cui comunque passano i vasi femorali, non proprio i capillari del mignolo del piede.
Ok, respira, focalizza e ripercorri mentalmente cosa hai visto prima: incidi, coagula, scolla, isola, lega, seziona, asporta, lava, controlla l'emostasi, sutura per piani.
Si, si può fare.

‘Bisturi, per favore’.

Si comincia.
Ok, non ci ho impiegato i canonici 20 minuti (anzi!) però posso assicurarvi che quella sensazione di operare, seppur un semplice linfonodo, ha assunto i connotati dell’ulteriore conferma che la sala operatoria è dove voglio stare.
Niente scuse, nessun ripensamento.
E’ così, senza ombra di dubbio.

Dopo il secondo linfonodo ho assistito ad altri interventi minori (ernioplastiche inguinali e crurali, fino all’ora di pranzo circa).
Bene, siamo sotto le feste e hanno a disposizione la sala operatoria solo per mezza giornata: il mio l’ho fatto. Grazie a tutti, buon pomeriggio.

Ah, l’illuso. L’avevo già detto?

Eccoli arrivare a velocità sostenuta e con fare incalzante i due chirurghi che erano stati chiamati da un ospedale del centro Italia per recuperare i polmoni da un donatore che risultavano essere perfetti per un paziente ricoverato per una fibrosi polmonare idiopatica. 
Volete non assistere a un trapianto bipolmonare?

Rapidamente si va in H24, la sala operatoria che non dorme mai, il regno dove Morfeo non osa avvicinarsi ed ecco, in quattro e quattr’otto mi ritrovo ancora lavato: fai da secondo su un trapianto? Eh..manca chi può aiutare.
Pronti e via, un tour de force di 9 ore circa suddiviso nei due tempi chirurgici dell’intervento (espianto-impianto), la cui nota da ricordare è forse stata quel ‘Su Capelli, tienimi il cuore e giramelo bene perché devo isolare arteria e vena polmonare, ma non stringerlo troppo forte e non fargli venire aritmie fatali, eh.’
Ah, tenere un cuore in mano. 

Io non so più come dirvelo, se non che adesso mentre lo scrivo e ripercorro quegli attimi, sento quel brivido, quella sensazione che sono certo anche voi avete la fortuna di provare quando si tratta di un’emozione intensa, quel genere di fremito involontario ma altrettanto ben gradito.

Il trapianto è complesso e richiede il coinvolgimento del primario che, al pari di un’evocazione, compare in un’aura quasi magica tratteggiata da quell’esperienza di chi ne ha viste proprio tante. Mi faccio umilmente da parte e osservo.

Si, più che osservare, rimango in trance.
Il movimento di quelle mani che dolcemente ma con ferma decisione, sanno dove andare, cosa legare, sezionare, quali strutture unire tramite anastomosi perfette.

E il tempo vola e viene messo l’ultimo punto di cute: nel mentre l’esecuzione di un miracolo, che prende le forme di un trapianto.
Basta, direi che per una giornata è troppo già così.
Troppi stimoli, troppi eventi da metabolizzare.

Si, credici.
Bimbo di 11 mesi, paziente del prof trapiantato di fegato con una perforazione in atto.
E’ da operare d’urgenza! Bisogna scoprire cosa è coinvolto e bloccare il problema sul nascere.
Quindi, quale migliore occasione per lavarsi e fare da assistente al primario?

Si, ho scritto bene. Lo strutturato, con serenità disarmante, mi spinge a operare con il primario ‘tanto fa tutto lui, chiunque può andare con lui, forza vai tu’.
Ah, vabbè, dovrò svolgere l’abile arte del divaricatore umano: posso farcela.
E così è: si, per i primi 5 minuti quando poi decide di mettere i divaricatori autostatici. Ok, guarderò da un posto privilegiato un intervento del primario. 

Devo smettere di farmi strane idee e illudermi.
Ogni. 
Maledetta.
Volta.

‘Guarda sembra sia colpa del duodeno! Ti va di cominciare a mettere tu i punti e provare a chiudere?’ Alzo lo sguardo e vedo che mi sta porgendo porta aghi con il punto montato e pinza anatomica. Con mano tremante mi avvicino alla lesione sulla superficie del duodeno e provo a far passare il punto, ma sembra che il tessuto non tenga. Ha una consistenza strana, i punti affondano senza però tenere una volta che provo a chiudere. 
‘E’ normale, questo duodeno è fatto così: riprovaci’.

Ci riprovo, forse due saranno rimasti al loro posto. Con gli altri tentativi mi sembrava solo di aver peggiorato le cose. ‘Ok dai, è un buon inizio, vado avanti io e tu stammi dietro’.
Una parola.
Rapidamente chiude la lesione, l’emostasi è ben controllata. Si può richiudere con serenità.

Mi svesto. Saluto il personale di sala. Vado nello spogliatoio.
Mi siedo, finalmente.
Sorrido come un ebete.

A distanza anche solo di un giorno, quel pezzo di carta è davvero manifesto di qualcosa di grande.
È prova scritta di un percorso in divenire, di una scelta che volontariamente sto facendo giorno dopo giorno. 
È qualcosa che dà idea di chi sono e chi voglio essere, nero su bianco, tramite parole scritte, le mie amiche preferite.

Il treno è arrivato in stazione. Fa freddo e piove.
Ma continuo a sorridere.

martedì 10 dicembre 2019

Prenditi il diritto di sorprenderti. (M. Kundera)

Oggi, a quasi 24 ore di distanza, ho solo bisogno di condividere, di condividere con tutti voi la notte tra il 9 e il 10 dicembre scorsi.

Una notte costellata da pianti sinceri e sorrisi velati.
Una notte scandita dal bip di un respiratore e dall'acre e pungente odore di un bisturi elettrico.
Una notte di verde tinta, dalle divise agli occhi ripieni di speranza degli operatori.

La notte del mio primo espianto di organi.

Da inizio mese sto frequentando l'Unita di Chirurgia Generale e dei Trapianti addominali presso l'Ospedale di Bergamo, la mia cara terra natia, per i tirocini pre-esame di stato.
Un dovere tanto scontato quasi inizialmente affrontato, vi confesso, non con grande entusiasmo.
Si, è sempre una branca chirurgica in cui non si trascorre la giornata a aspettare che l'antibiotico faccia effetto (non me ne vogliano i cari infettivologi!) ma anzi, con un certo ritmo e un'altrettanta dinamicità si alternano interventi di tutti le forme e colori: ernie, colecistectomie, emorroidi, qualche volta un epatectomia o una dcp, interventi in laparoscopica..ho detto ernie?
Interventi che proprio non si avvicinano alla delicatezza di un'asportazione di un tumore cerebrale o alla concitata evacuazione di un ematoma subdurale acuto!
Poi dai, la clinica non è minimamente comparabile a quella neurologica: meno intrigante e altrettanto poco curiosa!

No no, non fa per me. Dicevo una settimana fa.
Illuso, dico ora.

Non preoccupatevi, la neurochirurgia non si tocca: il primo amore è inarrivabile.
Ma, nessuno ci vieta di provare emozioni forti, credo infatti sia necessario riservarsi il diritto di sorprenderci, di apprezzare qualcosa di nuovo, di ricrederci.
Sempre, indipendentemente dagli stimoli esterni o da quello che può farci credere la gente.

Ma torniamo a quel ricordo.
E a quel messaggio su whatsapp: 'Sala, 21.30. A dopo.'
Senza bisogno di sprecare parole, chiaro, conciso, chirurgico (appunto!).
Quella giornata avevo avuto il sentore che sarebbe successo qualcosa: accennavano a una disgrazia accaduta a una giovane mamma che se, ritenuta idonea, sarebbe stata la candidata ideale per un espianto multiorgano data la sua anamnesi patologica completamente muta.
E quindi quel messaggio nascondeva tra le righe il senso vero della chiamata: sarei dovuto andare in sala a guardare l'espianto dalla magnifica panoramica del mio solito angolino.
Si, qualcosa di nuovo certo ma il primo pensiero dopo una giornata passata tra medicazioni VAC, giro  in reparto, compilazione di diari clinici e lettere di dimissioni, è dormire. Semplicemente.
Si, non nego di essere anche io un grande amante del piumone.

Ma un impegno è un impegno, forza e coraggio: copriamoci bene e usciamo.
Freddo, quel freddo che ti penetra dentro e che ancora una volta ti ricorda dove saresti stato meglio.

Cerco di non farci caso e rapidamente arrivo in ospedale, quasi lugubre a quell'ora.
Con passo svelto mi preparo e vado in sala operatoria dove ad attendermi c'è la specializzanda di turno che, con la solita buona volontà (Dio benedica sempre gli specializzandi!), mi descrive come e cosa avverrà di lì a poco tempo, di come in un battibaleno un turbinio di persone, di mani affaccendate occuperanno la sala operatoria.
Ed infatti, ho dovuto aspettare pochi minuti per vedere la sala stracolma di figure, dagli accenti più disparati provenienti dagli antipodi della nostra Penisola! Ottimo, non riuscirò a vedere nulla manco dal mio angolino, si questo è stato il mio pensiero.

Triste e banale direte voi, sincero dico io.
Sciocco, aggiungo io. A posteriori.

Tra la nostra equipe per l'espianto di fegato, pancreas e reni, quella per il cuore, quella per i polmoni oltre che al personale di sala saremo stati 13/14 persone! Tutti dediti al loro compito, tutti a lavorare in concerto per garantire l'esecuzione di una sinfonia perfetta. Solo vedere tutti questi professionisti che hanno deciso di rinunciare a una banale notte di sonno per poter dare una speranza di vita migliore ad almeno 6 persone (in base agli organi espiantati), mi fa abbandonare quel sentimento di inedia che mi aveva accompagnato fin dentro quella stanza piastrellata.
Tempo di trovare un pertugio per poter ammirare estasiato il lavoro iniziale dei cardiochirurghi che.. 'Ehi tu!' - al che io mi giro guardando se ci fosse qualcuno dietro di me -
'Dice a me dottoressa?'
'E certo! A chi altro? Su forza vai a lavarti, non ti ho mica chiamato per fare lo spettatore al cinema!'

Ah, ok.
Vorrà farmi vedere dalla prima fila e non dalla balconata.
Gentile.

Mi lavo, mi vesto (e puntualmente mi sento in imbarazzo quando l'esperta ferrista, con la voce di chi ne ha viste tante e ne ha affrontate altrettante, si rivolge a me 'lei dottore, mi scusi, che taglia per i guanti?'..quanto ci vuole per abituarsi: chiedo aiuto agli esperti!) e mi avvicino al tavolo operatorio.
I cardiochirurghi hanno aperto il torace e hanno fatto una prima ispezione, confermando quanto evidenziava la TC totalbody eseguita precedentemente per cui non si evince alcun segno di patologia.
Ora tocca a noi, cioè a loro: specializzanda e strutturata che devono fare la medesima valutazione a livello addominale.
Io, braccia conserte, e guardo.
La giovane specializzanda inizia a fare l'incisione e la strutturata incrocia il mio sguardo: 'Embè, non la assisti? Su chiedi alla ferrista cosa ti serve e lavora.'

Spronato a prendere parte a qualcosa di grande, entro in modalità battaglia.
Chiedo una pinza e l'aspiratore.
Erano le 22:15

Metto l'ultimo punto per chiudere la cute, alzo gli occhi, ho davanti un orologio gigante.
02:45

Ah, quattro ore e mezza in trance. Chi sente più il sonno, la stanchezza?
Non io. Non in quel momento.

Vi mentirei se ora mi dilungassi a raccontarvi filo per filo l'esecuzione dell'intervento.
I singoli dettagli tecnici ora sono immersi in un nebuloso ricordo che sa di miracolo.
E' stato tutto così concitato e bellissimo.

Ma anche immensamente triste e buio.
Riflettete un attimo: una mamma attraversa le strisce e viene investita mentre passeggia con il figlio di 6 anni.
Cosa ci può essere di più odiosamente straziante di una vita spezzata così?

Forse l'unica panacea è capire il senso profondo di quello a cui ho avuto l'onore di partecipare.
Non voglio dilungarmi in elucubrazioni sull'etica della donazione degli organi, non è questo il posto né il momento.
Posso dirvi questo però. Si, sinceramente posso confessarvi che vedere un cuore battere, incanulato per essere perfuso con una soluzione ad hoc potendo così clampare i grossi vasi, sezionarli con buon margine, asportarlo dalla cassa toracica, sapendo che potrà ridare vita ad un altro essere umano è un'emozione che a parole non si descrive. E lo stesso per gli altri organi, riconoscere le strutture vitali, vascolari e non, che devono essere isolate perchè si possano asportare con il pezzo.

Riconosci, isola, lega, seziona.
Riconosci, isola, lega, seziona..

Movimenti che diventano automatici, una ripetitività che ha il sapore di speranza.
Assume i connotati del dono più grande che un essere umano, anche al termine improvviso della sua esistenza, può elargire a chiunque ne abbia bisogno.
Non scontato e altrettanto meraviglioso.
Dopo sei anni di studi e tirocini talvolta affrontati con leggerezza, questa notte ho avuto la lezione più vera che tutti questi anni non hanno potuto darmi.

Ricordarsi sempre di rinnovare il diritto di sorprendersi, di assaporare la portata monumentale del miracolo del dono, del valore di una vita.
Io l'ho fatto la notte scorsa.
E non me lo dimenticherò facilmente.