domenica 20 dicembre 2020

Ho appena finito di leggere un libro

Ho appena finito di leggere un libro, anzi no, due libri. 

Un condensato di 150 pagine circa che normalmente potrebbero scivolare quasi nell’indifferenza di una lettura “da compagnia” per giornate noiose e uggiose, ma che in questo caso si sono rivelate un macigno ben più ostico da superare, digerire, codificare.

 

Ho appena finito di leggere due libri ed è un mese e tre giorni che non esco di casa, isolato per le progressive positività all’indagine molecolare del ben noto virus dei membri della mia famiglia e anche mia.

Un fulmine a ciel sereno che ha paralizzato la nostra quotidianità, che ha sancito la progressione delle nostre giornate nell’attesa snervante che terminassero il prima possibile per arrivare al famigerato d-day dell’ennesimo tampone.

 

E tra un colpo di tosse e il gusto che se ne va per poi ritornare lesto, mi sono scontrato per caso con una brutalità quasi devastante con questi due racconti, intrisi di realtà, di sangue, di umanità. 

Una realtà che spesso fa da frequente sfondo a titoloni acchiappa consensi e da triste palcoscenico per discutibili opinionisti.

 

Sapete, io sono un divoratore di libroni, di storie che sembrano non finire mai.

Aver preso questi libricini sembrava più che altro un errore, o forse no.

Libri così sottili per volume, ma così ingombranti, dei veri pachidermi, per tema affrontato.

 

In questi libri si vola, dal Kurdistan all’Angola, dall’Etiopia al Perù passando per la Cambogia, Gibuti e l’Afghanistan, che diventa la regina incontrastata in uno dei due volumi.

In questi libri si gustano sapori dimenticati, si percepiscono fragranze appartenenti a tribù, mondi distanti da noi anni luce. 

In questi libri si piange o si vomita.

Si piange per la difficoltà di comprendere e capire certe situazioni, si vomita per l’impatto di corpi mutilati, che con violenza fanno capolino tra un kalashnikov di stampo sovietico e uno strambo aggeggio verde dipinto che viene scambiato per gioco ma che si tramuta in trappola mortale.

 

In questi libri però si sorride.

È un sorriso amaro, che con timidezza nasconde dolore, ma che cerca di evidenziare le piccole e grandiose conquiste che un team variegato di professionisti raggiunge, in contesti a dir poco incredibili.

 

Questi libri mi hanno accompagnato in parte, durante questa quarantena infinita.

Sono state il comburente d’inchiostro per la combustione dei miei pensieri che non trovavano un filo conduttore perché ossessionati dal ‘ma come è possibile che siamo positivi con tutte le precauzioni?!’ al ‘non ne usciremo mai!’.

 

Estremizzo forse, ma vi assicuro che la gestione di una quotidianità e di un’infezione in famiglia, mi ha talvolta fatto qualche fastidioso sgambetto.

Ed ecco che questi libri mi hanno spento, o forse mi hanno acceso.

Hanno accesso il lume di una valutazione più ampia, di un allargamento dei confini, hanno spento il neglect che mi stava affliggendo miseramente. 

O meglio, nel quale mi imponevo di giacere commiserandomi della situazione che vivevo, che sto vivendo.

 

In medicina, il Neglect è la negligenza spaziale unilaterale o eminattenzione spaziale: paroloni che traducono l’esito di una lesione cerebrale inducente un fastidioso disturbo della cognizione spaziale nel quale, il paziente ha difficoltà ad esplorare lo spazio controlaterale alla lesione e non è consapevole degli stimoli presenti in quella porzione di spazio esterno o corporeo e dei relativi disordini funzionali. 

 

Che l’abbiate letta tra le righe di Sacks o ascoltata di sfuggita a lezione oppure anche se questo termine non vi accende alcun riferimento, non preoccupatevi.

Non è mia intenzione soffermarmi sui perché.

 

Ma sul come.

Come due libri siano stati in grado di spegnere il mio neglect.

No, non per le classiche lesioni al lobulo parietale inferiore o ai meno frequenti danni sottocorticali a livello talamico.

 

No, il mio neglect tradotto nella cecità e nella mia autocommiserazione delle ultime settimane.

Neglect è trascurare, nella sua accezione etimologica più antica. 

 

Non voglio cadere nel banale e scolastico ‘c’è di peggio’.

Ma la riflessione ruota proprio attorno a questo pilastro, tante volte citato con noncuranza come un mantra per dare tregua alla nostra coscienza, senza però dare peso a quanto ignoriamo, a quanto trascuriamo davvero.

 

Questi libri hanno avuto la pazienza di accogliermi, abbattendo quel fastidioso neglect che andava erroneamente a focalizzare le mie paranoie sì su un problema personale-famigliare, ma senza considerare che nella sua assurda difficoltà, non aveva ragione d’essere quel persistente stato di lamentela, di invocazione a chissà che divinità dei Pantheon riuniti per ottenere chissà che chiave di lettura per questa situazione.

 

Il più fine dei neurologi tra di voi allora potrebbe consolarmi dicendo che coloro i quali soffrono di sindrome di eminattenzione sono quasi sempre completamente anosognosici, non hanno cioè consapevolezza del proprio deficit.

No, cari miei, questa non è una scusante.

 

Sono stanco di tergiversare.

Questi volumetti sono stati per me come il mezzo definitivo per sbarazzarmi del mio velo di Maya, per poter accedere alla realtà nuda e cruda che in un certo modo mi ha permesso di razionalizzare la mia situazione, di semplificarla quasi come facevamo al liceo con quelle odiose frazioni irrazionali.

 


L’accenno a Schopenhauer è perché il neglect che mi ha accecato e indotto a considerare la mia, come la situazione peggiore dalla quale non trovare via d’uscita, altro non è che la traduzione di quell’ostacolo che non mi ha garantito di approcciarmi al tutto in maniera più serena, senza isolarmi.

No ok, questa non era voluta! Isolato si, ma non mentalmente!

 

Ho appena finito di leggere due libri che, come la volontà di vivere in grado di squarciare il famigerato velo, mi hanno liberato gli occhi e che, per gli amanti di Platone, mi hanno permesso di uscire dalla caverna risvegliando così la mia anima, facendomi rendere conto che trascurare il bistrattato “c’è di peggio” non mi dà garanzia di superare questa situazione di positività negativa.

 



Ma sapete, forse c’è qualcosa di più.

In questi libri.

Due elementi in più che sono stati utilizzati come armi improprie per sconfiggere quell’incatenante percezione della quotidianità.

 

La chirurgia e i sorrisi.

Si, perché tra lo scoppio improvviso di una bomba e una corsa a perdifiato per attraversare il fronte, tra parole in una lingua sperduta e le temperature glaciali a più di 4000m, il tempo a volte si ferma in quella che è un luogo dove tutto succede tranne che l’arresto delle azioni, ma che anzi è un travolgente susseguirsi di mani che prendono, incidono, isolano, clampano, suturano, salvano.

È la sala operatoria che nasce sotto una tenda montata in men che non si dica.

È la sala operatoria che rivive dalle macerie di un quadrato di piastrelle in frantumi.

È la sala operatoria che affronta sfide che semplici righe macchiate d’inchiostro danno solo una parvenza di straordinarietà.

È la sala operatoria dove si fronteggiano sconfitte che puzzano di morte.

È la sala operatoria che celebra la ripresa di un battito sinusale o di un arto che riprende colore, polso, vita.

 

E sono questi sprazzi di concretezza su un mondo tanto lontano ma tanto vicino, che mi risvegliano dal torpore inculcandomi quella specie di genuino orgoglio se penso che anche io avrò la medesima fortuna. Si spera.

 

Ma non è solo il riverbero delle lampade scialitiche che mi ha finalmente risvegliato.

Sono anche quei sorrisi, che emergono dalle mascherine di chirurghi chini per ore e ore a correggere quel difetto, a salvare l’insalvabile. 

Ed è così quindi che nel mio silenzio, anche un sorriso può fare rumore. 

Un rumore che spacca quell’angosciosa e a tratti esagerata sensazione di paralisi di fronte a un improvviso ostacolo.

 

Se per me è stato il connubio chirurgia e sorrisi a limare l’insostenibilità del momento, facendo scemare quel crudele neglect verso orizzonti più ampi, forse chiunque può avere il coraggio di trovare la propria accoppiata vincente per trascendere la difficoltà.

 

Ho appena finito di leggere un libro, anzi due.

Pappagalli verdi.

Buskashì.

mercoledì 9 dicembre 2020

Piove

 Piove.

Tempesta.

 

Fuori dalla mia camera, dentro la mia anima.

La ruota degli eventi gira caotica, raffazzonando un senso, una direzione per poter garantire il ripristino dell’armonia del quotidiano. O almeno, un accenno di normalità.

 

Piove e viviamo in un romanzo distopico.

Tempesta ma siamo sospesi, fluttuanti in un etere di sogni, speranze e diritti mancati.

 

È da qualche giorno ormai che la paradossale situazione che sto vivendo come giovane medico, come camice grigio (per i non addetti ai lavori, dicasi camice grigio il medico abilitato non specializzato), è sulla bocca di tanti: testate giornalistiche di tiratura nazionale, programmi radio ascoltati da migliaia di orecchie, testimoni inconsapevoli di tale dramma, servizi ai Tg nazionali perché si sa, finchè non c’è scalpore mediatico, non esiste la notizia o almeno non vale la pena che venga venduta sugli schermi.

È il paradosso di avere migliaia di medici bloccati da raggiri burocratici che da mesi hanno congelato le pratiche e non permettono loro di concludere in pace le normali procedure di assegnazione, immatricolazione ed inizio presso una scuola di specializzazione di stampo medico o chirurgico.

È l’ennesimo schiaffo che umilia il nostro essere giovani professionisti, il nostro essere persone.


 

Piove ma potrebbe non essere un male, in fin dei conti.

Perché ci ricorda che è parte di quel prezioso e perfetto equilibrio che l’ecosistema chiama vita: la natura e le leggi che la governano non cercano di sviare, di mostrare una completa assenza di cambiamenti disadattivi di fronte allo scorrere del tempo, innanzi allo stress indotto dai giorni che scorrono. 

No, piove, tempesta e la natura rimane salda, regolandosi a mantenere una delicata omeostasi.

 

La natura è lo specchio dei suoi numerosi abitanti variopinti, noi, esseri umani.

Attenzione però, alla fine noi umanità non siamo così statici, non siamo e basta. 

Sposo il concetto di Heinz von Foerster: dovremmo considerarci divenire umani e non esseri umani

Soggetti in grado di modificarsi, di adattarsi alle dinamiche del quotidiano, qualunque esse siano nonostante non si possa discendere due volte nel medesimo fiume perché tutto scorre, tutto scivola via. La natura però hai dei capisaldi a cui appellarsi, che emergono anche quando tutto pare andare rovinosamente.

 

E noi divenire umani cosa abbiamo?

La resilienza.

 

Termine abusato se ne esiste uno, viene inquadrata dall’American Psychological Association come "il processo di adattamento a fronte di avversità, traumi, tragedie, minacce o significative fonti di stress’’.

La classica definizione che accettiamo per un esame scritto all’università ma che qui non ci soddisfa, o almeno non soddisfa me.

 

Continua a piovere e un aroma di caffè caldo si sparge, forte, in questi pochi metri quadrati.


Sembra scontato usare l’odioso ‘Su dai non mollare’ tradotto accademicamente ed elegantemente in ‘resilienza’ per far fronte a quello che io con altri 24mila colleghi e amici stiamo esperendo. 

Ma non riguarda solo noi nati nei primi anni ’90 con questo folle e coraggioso desiderio di spendere la vita nelle quattro fredde mura di un ospedale, riguarda ciascuno di noi.

 

Si, anche te che hai avuto lo sbatti di arrivare fino qua.

Te e la tua voglia di divenire.

 

Quasi magicamente questa proprietà umana di presentare processi protettivi o positivi che riducano gli esiti disadattivi in condizioni di rischio, ha un tradotto concreto che fa rima con neuropeptidi, connessioni sinaptiche, definizioni epigenetiche.

Cercate la parola chiave resilience su Pubmed e troverete reviews varie che descrivono meglio quanto sto per accennare. Definendo come basilari i ruoli del sistema nervoso autonomo e dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel coordinare le risposte neurocomportamentali alla minaccia e ad altre forme di stress, sono diversi gli autori (Cathomas, Pfau per citarne alcuni) che considerano il concetto di resilienza come un processo che richiede l'integrazione di più sistemi centrali e periferici, che vanno da circuiti cerebrali specifici a fattori umorali del sistema immunitario e cambiamenti all'interfaccia tra il cervello e la periferia.

Addirittura, Pfau et al. hanno studiato il ruolo dei microRNA nel mediare le risposte infiammatorie e comportamentali allo stress nel modello della sconfitta sociale: hanno mostrato differenze preesistenti nel rilascio dei leucociti dell'interleuchina-6 che predicevano se un singolo animale svilupperà un fenotipo sensibile o resiliente. 

 

Insomma, un piccolo accenno per evidenziare quanto profondo e intricato e meraviglioso sia il percorso di definizione di una delle capacità che non ci tratteggiano come esili canne sbattute dal vento ma come possibili poderose querce ben radicate a terra.

 

E ancora una volta nei miei deliri raggruppati a guisa di patetico tentativo di testo unico, traspare evidente quella che è quell’ammirazione sconfinata verso il più misterioso organo della cattedrale del nostro corpo: ecco il cervello che con malcelata umiltà sottolinea a suon di connessioni neurali e microscopici messaggeri, il nerbo che dà origine alla nostra capacità nel divenire, nostro e del mondo, di resistere, di adattarci, di crearci un significato che dia senso a tutto quello che viviamo.

Dà origine al nostro essere resilienti. Al nostro divenire resilienti.

 

Quindi dai, un commovente tentativo di tradurre in scientifichese la famosa perla: ''Perché cadiamo, signore? Per imparare a rimetterci in piedi''.

Alfred sarebbe fiero di noi.

 

No, non mi basta.

 

Resilienza potrebbe per molti avere una traduzione diversa: anni luce dalla neurobiologia, è derivabile anche da un concetto filosofico, quello che Platone chiama “Thymoeldès”, che in greco significa “respiro”, ma anche “cuore”, un termine che rimanda all’anima, a quell’ambito che rende l’anima capace, adeguatamente allenata, di cogliere tutto ciò che è vero emozionalmente.

Secondo questa visione, sarà proprio l’emozionalità a legarsi con la parte razionale e a dirigerla, a renderla resiliente.

Questa visione è tradotta in un’immagine nel Fedro: una biga con due cavalli. L’auriga che guida la biga è la razionalità e i due cavalli rappresentano la passione e l’emozione. L’emozione è un cavallo bianco che comprende il linguaggio dell’auriga (l’anima razionale) ed è continuamente attiva nell’atto di moderare il cavallo nero simbolo invece delle passioni.

 

Thymoeldès è quindi forza d’animo, che con ardore media il conflitto del divenire del mondo e dei cambiamenti della vita, delle nostre vivide passioni e della calcolatrice razionalità.

 

Thymoeldès è resilienza. E indovinate Platone dove localizza l’origine della resilienza?

Nel cervello direte voi.

Nel cuore, dice Platone.

 

Il cuore è dimora metaforica del sentimento, inteso non come placido e rilassante atteggiamento ma come forza. 

Forza che ci permette di scegliere, senza farci vincere dall’eterna diatriba dei pro e dei contro, che ci permette di resistere al divenire, senza cadere nel difetto di identificarci come stranieri nella nostra stessa vita, o peggio come spettatori.

 

La forza d’animo, che è poi la forza del sentimento, ci difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di noi.  

 

E anche nell’urgenza paradossale della realtà di questi giorni che accomuna noi giovani medici, fare nostro il pensiero di Platone che si coniuga con le più recenti ricerche che dimostrano scientificamente l’essenza della resilienza, può forse darci uno spiraglio per rimanere aderenti alla nostra vita, alla nostra scelta, nonostante tutto.

E così in ogni sfida.

 

Non ha ancora smesso di piovere.

Eppure, c’è una luce che filtra tra le tende.

È un monito che nella sinfonia del ticchettio delle gocce sul davanzale fuori, suona cosi: ‘’se noi lasciamo la nostra luce splendere inconsciamente diamo alle altre persone il permesso di fare lo stesso, appena ci liberiamo dalla nostra paura, la nostra presenza automaticamente libera gli altri’’.

martedì 14 aprile 2020

Homo sum

Ho dei ricordi appannati quando si parla di liceo. 
La solita strada con il pullman di linea ripetuta allo sfinimento, le stesse facce addormentate la mattina alle 7.23, gli stessi banchi scarabocchiati, le nere lavagne ricolme di calcoli che a ripensarci altro che fifa per gli esami dell’università, infiniti e monotoni pomeriggi a ripetere Kant o la rivoluzione industriale, giusto il legame iniziato con lei ha rischiarato un po' il tutto…
Ma per il resto.
Freddo.
Uniforme. 
Una rara eccezione è se penso a quelle lezioni di letteratura o di filosofia che tanto mi riscuotevano da un laido torpore. 
E indovinate un po'? Ieri, al termine della mia prima visita domiciliare in solitaria durante il turno di guardia medica, mi è ritornato prepotente un ritornello che avevo letteralmente adorato allora e che forse è stato uno dei motti che più mi ha accompagnato durante gli ultimi sei anni di studi.
Era sempre lì, come il migliore dei memorandum, come il più efficace dei promemoria che tanto mi richiamava alla mente il motivo per cui avevo iniziato dagli alcani in chimica per passare alla triade di Charcot o al meccanismo d’azione dei macrolidi.

Homo sum, humani nihil a me alienum puto 
(Publio Terenzio Afro - Heautontimorùmenos v. 77 - 165 a.C.)

Letteralmente suona come «Sono un essere umano, niente di ciò ch'è umano ritengo estraneo a me», anche se io preferisco la versione più fruibile «Nulla che sia umano mi è estraneo».

Quale sarà mai la necessità di scomodare un autore latino per far si che la giornata di ieri assuma un sapore più vero, un ricordo più autentico?
Come far quadrare il cerchio con alcune parole di una lingua morta con una fiala intramuscolo di furosemide?

È semplice. Quasi automatico.
Quasi come se quella frase rappresentasse alla perfezione il pezzo in grado di completare finalmente il puzzle della medicina, quella genuina.
Forse ingenua ma anche per questo, la più vera.

Ieri, in quella stramba Pasquetta senza grigliate né pic-nic, avevo il turno in guardia medica. Questa volta toccava a me fare da centralinista, occuparmi cioè della stragrande maggioranza delle telefonate e delle eventuali visite domiciliari mentre due altri miei colleghi si occupavano delle visite ambulatoriali. 
Tra un consiglio telefonico e l’altro ricevo nella tarda mattinata, una chiamata di un 50enne in apprensione per l’anziana madre diabetica e ipertesa, che dalla mattina presentava valori pressori al di sopra della norma, oscillava tra i 175/85 e i 185/90, senza però mostrare alcun segno o sintomo di disorientamento s/t, precordialgia o simile.
Aveva già assunto dopo colazione la solita terapia antipertensiva con bisoprololo 1,25 mg e la palpabile preoccupazione del figlio si traduceva in una richiesta di aiuto; non avendo altri farmaci da poter utilizzare ho consigliato la somministrazione di mezza compressa di B-bloccante con l’impegno di risentirci nel pomeriggio per valutare eventuali novità. 
Potete immaginare che da quella chiamata sono rimasto con i nervi a fior di pelle per le ore successive: molti pazienti con ipertensione severa sono asintomatici e non hanno compromissione d’organo, si potrebbe avere una moderata cefalea di accompagnamento. Tuttavia l’esame obiettivo del paziente con crisi ipertensiva si dovrebbe fare sempre per escludere la presenza di diverse condizioni patologiche tutt’altro che secondarie come traumi o lesioni craniche, delirio, convulsioni, disturbi della vista o segni focali suggestivi per stroke; ricercare nausea e vomito nell’eventualità di un’ipertensione endocranica; dolore o peso toracico nel sospetto di IMA o dissezione aortica; la presenza di dispnea nel caso di una TEP.
Perché se fosse presente anche uno solo dei precedenti, il paziente ha una emergenza ipertensiva e va gestito a livello ospedaliero, nel reparto dedicato di emergenza con monitoraggio costante della pressione, farmaci endovena e gestione dei danni d’organo.
Insomma non proprio così scontato.
Proprio per niente!

Mentre cercavo di trovare una linea d’azione nell’attesa di quella fatidica chiamata mentre cercavo di gestire casi di ripresa di allergie stagionali, di febbricole e anosmie da sospetta infezione da SARS-Cov-2, il tempo trascorreva più lento di quanto mi aspettassi e la chiamata tardava ad arrivare.
Ed ecco alle 16:04 squillare il telefono per l’ennesima volta in quella giornata: ‘Dottore, si salve sono quello di prima della mamma con la pressione alta, ecco la mamma sta bene eh ma ora la macchinetta segna 195/95, mi sembra un po' altina, ma la mamma sta benissimo’.
Eh, un po' altina…altro che altina!!

Premetto che prima dell’emergenza pandemica attuale, la guardia medica non si faceva problemi a uscire ad andare a visitare ai domiciliari il paziente. Ora tuttavia abbiamo ricevuto dall’alto delle direttive per cui sarebbe altamente sconsigliato, o se proprio necessario, approcciarsi con tutti i DPI necessari. 
Chiaro è che in una situazione del genere non c’è tanto da riflettere oltre.
Prendo l’indirizzo, recupero la tuta monouso, mascherina, un bel po' di guanti e guardo nella farmacia della sede cosa potrebbe venirmi in aiuto in questa situazione. 
Meno male avevo letto quel manuale delle giovani marmotte e mi ero soffermato anche sulla gestione delle crisi ipertensive, aspetta però, cosa diceva?
Vuoto.
Buio totale.
Avete presente quella sensazione disagevole prima degli esami per cui sembra di aver dimenticato tutto?
Ecco era cosi. Peccato che stavolta non potevo eventualmente ritirarmi e farlo all’appello dopo se non fossi riuscito a vincere l’ansia. 
Respira Sergio.
Ricordati perché sei qui, ricordati perché lo fai…
Nulla che sia umano mi è estraneo..

È come una molla, una vocina della coscienza che altro non fa se non permetterti di raccimolare le informazioni che da qualche parte sono sotterrate ed utilizzarle in questo frangente.

Nifedipina gocce sublinguale. No no, fuori dalle linee guida da un po'.
Captopril 25mg sublinguale: ottima scelta! Solo se ne avessimo a disposizione qui in sede.
Ah già: furosemide 20 mg in fiale da somministrare endovena o intramuscolo. Eccole lì!
Si, direi che queste potrebbero essere la giusta soluzione.

Riempio rapidamente la mia borsa di tutto il necessario e via, imposto Google Maps e si parte!
Le strade sono vuote (fortunatamente!) e in poco meno di 10 minuti mi infilo in una viuzza tra campi di girasole e distese verdi: i paesi della mia provincia nella loro semplice maestosità sono ossigeno puro per l’anima.
Il sole è caldo. Sembra un pomeriggio estivo. 
Tuttavia è meglio bardarsi da capo a piedi con la tuta protettiva, non sai mai se i membri della famiglia sono entrati in contatto con casi sospetti. 
Ed eccola lì: tutta la famiglia riunita al portone d’ingresso ad attendermi. Gli occhi dei numerosi nipoti, spaventati poichè l’arzilla nonna non sembra essere la solita, gli occhi dei figli in sincera apprensione, preoccupati maggiormente della comparsa improvvisa di quei numeri maledetti che per la patologia in sé.
Ci guardiamo. E lì non servono parole: si crea una connessione silenziosa, proverò a fare tutto quello che è nelle mie forze.
Salgo le scale e mi ritrovo scaraventato nella tipica dimora dell’anziano bergamasco, costellata di ricordi con le mura che trasudano antichi sentimenti e risate sincere e pianti autentici.
Mi accompagnano nella camera da letto e ecco lì la mia primissima paziente. 
Tra qualche parola in dialetto e una rassicurazione in finto medichese, visito la signora da capo a piedi.
Sono terrorizzato: non è il tirocinio, dopo non arriva lo strutturato o lo specializzando di turno a fare il controgiro.
Sono da solo in quella camera.
Io e la signora B.
Mentre cerco di non tremare troppo, cerco di scandagliare qualsiasi eventuale anormalità organica che possa rendersi manifesta dal mio esame obiettivo.
Di fatto la signora sembra davvero non avere nulla di patologico tranne che alle diverse misurazioni della PA in cui i valori non scendono sotto i 185/90. 
Senza pensarci troppo ragguaglio la famiglia intera e decido di farle un’iniezione intramuscolo di furosemide, il capostipite dei diuretici che sicuramente avrebbe alleviato nell’immediato quella situazione.

Disinfetto. Preparo la siringa.
Tremo.
Calma, respira.
Va tutto bene.
Facciamo sparire le bolle nella siringa e via.

Fatto, tutto qui?
Si, forse non è l’iniezione in sé quanto piuttosto il significato della mia presenza lì.
Anzi, sicuramente è per quello.
Ora a mente più lucida posso confermarvelo.

Faccio ancora qualche chiacchera con l’anziana signora. I suoi stanchi occhi sono di un verde penetrante, mi cercano e mi sciolgono l’anima: ’Grazie signor dottore per essersi disturbato’ (chiaramente nel mio adorato bergamasco). Quelle donne fiere di un tempo andato che non si sprecano in parole vane ma che con sei parole traducono appieno il perché di tutto.
Il senso più autentico di ogni cosa.
 
Vado quindi nel salotto per redigere dei documenti e nel mentre cerco di spiegare ai figli la necessità di tenere controllato che la mamma assuma regolarmente la terapia e affidarsi quindi al curante per ricercare il perché di questi eventi con indagini approfondite.
Sapete, noi bergamaschi siamo spesso un popolo che si contraddice per il duro lavoro, poche parole; talvolta freddo e burbero, siamo in realtà radicati con profondità e riconoscenza alla nostra terra e al senso più autentico della famiglia.
In quei momenti passati in quella casa di campagna a cercare di spiegare il significato della pressione alta e di come sia necessario un controllo attento nonostante i non evidenti danni che la patologia possa provocare nell’immediato, è come se una parte della mia mente avesse ripercorso in contemporanea gli ultimi anni passati a studiare e con una cantilena come sottofondo.

Homo sum, humani nihil a me alienum puto 

È come se tutto avesse un compimento e un inizio in questa stramba Pasquetta senza grigliate né pic-nic, in questa isolata casetta di provincia.
Una quadratura del cerchio con la mia prima paziente in visita domicilare.
Con una fialetta di lasix in mano e gli occhi ricolmi di umana gratitudine per il solo significato del poter dare.
Dare è tutto.
Essere umani è qualcosa di inarrivabile.

martedì 18 febbraio 2020

Amigdaloippocampectomia: scioglilingua minimalista

Amigdaloippocampectomia.

Uno scioglilingua peggiore del potteriano balbettante bambocciona banda di babbuini.

Una tecnica chirurgica che nasconde tra le righe una devastante demolizione, non solo anatomica, forse dell’essere stesso. Ma che in realtà è il manifesto più vero di questa branca chirurgica.

La neurochirurgia è una disciplina che si vota al minimalismo. 

L’anima del minimalismo è espressa dalla sua declinazione in numerose sfaccettature dell’esistenza, come strumento per rimuovere il superfluo e focalizzare l’attenzione su ciò che conta.
Il minimalismo si traduce nell’arte tramite la necessità di ridurre la realtà, di enfatizzare l’oggettualità e la fisicità dell'opera, il tutto condito da una buona dose di antiespressività, impersonalità, freddezza emozionale. 
In linguistica il minimalismo è concentrato sulla sintassi. La musica minimalista si fonda sull’ostentata iterazione di brevi temi che si evolvono lentamente.
Insomma, ogni forma d’arte ha in questa filosofia, un ritorno alle origini, al recupero degli elementi basilari, senza ulteriori fronzoli e esagerate ampliazioni di contenuti. 
E questo è il minimalismo: dedizione all’essenziale.

E la neurochirurgia è forse la miglior portabandiera di questo approccio. Certo, la chirurgia moderna si sta focalizzando sempre di più al mini-invasivo, all’utilizzo delle tecnologie robotiche per poter limitare i danni, per garantire un recupero migliore al paziente, per esaltare il minimalistico senso dell’esistenza dell’oggi, anche in ambito chirurgico.

Tuttavia, la neurochirurgia ha nei suoi dogmi il minimalismo.
Provate a pensarci.

Brain Line Drawing
{Painting Valley}
Nella colectomia eseguita per un carcinoma del colon si ha la necessità di asportare un margine libero, ossia non recidere il colon solo nella porzione malata ma anche qualche centimetro di tessuto sano per evitare che ci sia una facile ripresa di malattia.
Ora traslate questo concetto nel parenchima cerebrale: se c’è una lesione espansiva nel lobo frontale, ampliate i margini di resezione così oltre a provocare un possibile danno nella zona colpita che però avevate messo in conto, danneggiate anche altre strutture adiacenti?!
Direi proprio di no.



Il cervello è un continuo. Il cervello è essenza.

Non puoi permetterti di adottare un principio diverso se non quello dell’essenziale minimalismo: asporta il tumore, la lesione colpevole, senza permetterti in alcun modo di oltrepassare i limiti imposti e di indurre rovinose conseguenze.
Focalizzati su ciò che conta, rimuovi le distrazioni e concentrati solo su ciò che produce significato, su ciò che produce danno.

Praticamente un dogma di pratica attuazione.

Puntualmente, ho potuto assistere a un cambio di rotta integrale, a una vera rivoluzione copernicana a colpi di bisturi elettrico e pinza per coagulare.  
Copernico si propose di indagare se i movimenti celesti non si potessero descrivere meglio facendo star fermi gli astri e ruotare l’osservatore, e così anche Kant si mosse dall’ipotesi che siano gli oggetti a doversi regolare sulla nostra conoscenza (Critica della ragion pura, B XVI).
Quindi anche noi, lasciamoci travolgere da quest’aria di cambiamento, mettiamo in un angolino quella definizione minimalista e abbracciamo una temporanea rivoluzione che fa rima con amigdaloippocampectomia.

Chiudete gli occhi.
Lo sentite? È il frastuono silenzioso di una vita che lotta per rimanere. Per garantirsi ancora un posto in questo fragile mondo. 
Non dimenticatelo, sarà il nostro compagno.

Ottobre del sesto anno. 
Si ricominciano le lezioni, per l’ultima volta finalmente! Nel frattempo, anche ultimo giro di tirocini formativi e frequenza del reparto di neurochirurgia per la tesi che riesco a ritagliare solo in qualche sabato o pochi giorni in settimana.
Però quel sabato me lo ricordo.

Un giorno come tanti, per me.
Un giorno devastante come pochi, per lei.

Con lo specializzando di turno sto svolgendo il giro visite nella terapia intensiva neurochirurgica, dove i pazienti che hanno subito un intervento vengono monitorati attentamente dagli anestesisti e poi trasferiti presso il nostro reparto, una volta superata la fase di acuzie.

Esame obiettivo neurologico invariato. 
“E’ inutile che ti perdi via a fare una valutazione neurologica completa, tanto ci sono gli anestesisti che ti avvisano se qualcosa non va per il verso giusto”.
Sante parole dello specializzando.
Esame obiettivo neurologico invariato.

Stiamo per allontanarci da quel coacervo di bip e fili colorati che noto una paziente senza alcuna medicazione a livello cranico.
“Molto strano – mi dico tra me e me – se vengono dalla sala operatoria, perché questa non ha nulla?” 
Con il mio solito fare da giovane marmotta curiosa, interrogo lo specializzando che, imbarazzato, sembra non riuscire a darmi una risposta convincente.
Ecco allora che l’anestesista (Dr. K) accorre in aiuto e, pazientemente, ci spiega.

Si tratta di una giovane donna (M.) trasferita da un ospedale di provincia nel reparto di Medicina del nostro ospedale, per degli accertamenti per iperpiressia persistente da 72 ore in leucopenia e incremento di indici di flogosi, responsiva a antibioticoterapia empirica. Imaging di base (RX torace e TC addome) negativo. 
Tuttavia, nel giro di poche ore la situazione è andata degenerando: improvvisa insorgenza di catatonia, crisi epilettiche subentrati solo inizialmente responsive a terapia anticomiziale a dosaggio progressivamente crescente. Crisi che il giorno successivo si sono trasformate in stato di male epilettico con necessità di intubazione orotracheale e passaggio endovena della terapia antiepilettica. Veniva perciò trasferita in TINCH per competenza dove eseguiva una serie di indagini radiologiche e microbiologiche alla ricerca di un potenziale responsabile di quell’improvviso peggioramento.

A questo punto il Dr. K sospira. 
Un sospiro che suona come un’invocazione di aiuto.
Con un velo di amara tristezza ci guarda profondamente nell’anima come se avesse voluto strapparci dal profondo qualche conoscenza per poter trovare una risposta al difficile quesito riguardo alla salute della giovane paziente.
Impietosamente ci mostra la cartella clinica e il lungo elenco di indagini eseguite.

Un’interminabile lista, una terribile lista di buchi nell’acqua.
TC encefalo, RMN encefalo: negative.
Esame del liquor da rachicentesi: negativo per infezioni.
Esami colturali: negativi.
Antigene urinario pneumococco/legionella: negativo.
PCR per infezioni virali: negativi.
Ripetute ricerche per autoanticorpi vs NMDA: negativi.
Indagini molecolari per porfiria: negativi.
TC TotalBody, PET, Aspirato midollare: negativi.

Negativo.

Più leggevo i numerosi esami eseguiti, più sentivo crescere un’ansia quasi devastante. Mi sentivo impotente. E in tutto questo il Dr. K che continuava a cercare il nostro sguardo come se potessimo trovare quel dettaglio che magari gli era sfuggito e trovare quindi la soluzione.

Non è una puntata di Dr. House. Nonostante i numerosi esami eseguiti e le altrettanto copiose domande rivolte alla famiglia della paziente, non era stata individuata la chiave di volta, l’algoritmo giusto per decriptare il problema.

Ecco il Dr. K che mi scuote e mi fa tornare alla realtà. “Ad oggi M. è in profonda sedazione plurifarmacologica per stato di male epilettico convulsivo super refrattario con Propofol, Ketamina, Midazolam, Tiopental sodico, Isofluorano oltre alla terapia anticomiziale con Lacosamide, Levetiracetam, Lorazepam, Perampanel, Acido valproico. Il tutto dopo aver provato ogni terapia per tutte le possibili eziologie avanzate: cortisone a alto dosaggio (2cicli), plasmaferesi, immunoglobuline endovena, dieta chetogenica, arginato di ematina”.

Insomma, in poche parole, la vita di M. è letteralmente appesa a un filo. Sono stati provati tutti i presidi farmacologici possibili ma lo stato epilettico persiste.

Inesorabile.
Crudele.

Ci sarebbe forse un’ultima direzione da intraprendere.
Definitiva.
Senza biglietto di ritorno.

I macchinari dietro M. cominciano a emettere inquietanti bip a una velocità inusuale mentre vengono sparate su un rotolo di carta una serie di onde aguzze dall’EEG che non fanno presagire nulla di buono.

Vedo lo specializzando parlottare con Dr.K con fare molto animato. “No, assolutamente! È una donna giovane, ha ancora la possibilità di uscirne senza passare da lì. Credi? Non lo so. Ok, chiamiamolo”.
Con un’occhiata di intesa lo specializzando mi fa intendere che sta per succedere qualcosa di grosso, veramente grosso.

Attendo, nel mio angolino.
Non ci sto capendo nulla.

Nel giro di pochi minuti ecco fare la sua comparsa il Prof. J, uno dei neurochirurghi dell’ospedale, uno dei migliori, in assoluto.
Lo sento discutere dapprima con lo specializzando e poi con l’equipe degli anestesisti.
“Cosa aspettiamo per un’amigdaloippocampectomia?! – tuona il Dr. J – non c’è tempo da perdere, non possiamo aspettare! Sergio, seguimi.”

Erano le 13:20. Mi ricordo bene perché a metà mattinata, vedendo che non stava succedendo nulla, avevo organizzato un pomeriggio al campetto con gli amici e avevo posto l’appuntamento alle 14.

Niente campetto.
Sala operatoria.

In un rapido turbinio di movimenti precisi, anonimi figuri azzurro vestiti, M. si ritrova sul tavolo operatorio. 
Prof J. e lo specializzando sono lavati.
M. è sotto anestesia generale.
“Bisturi” urla il Prof.
14:10. Ora dell’incisione.

Da lì ricordi confusi e vividi allo stesso tempo.

Incisione fronto-temporale sinistra curvilinea. Si scolpisce un lembo craniotomico con un foro di trapano posteriore e passaggio di craniotomo. Apertura durale con cerniera anteriore e sua appensione circonferenziale.
Ecografia intraoperatoria con evidenza di un’iperecogenicità a livello delle strutture amigdaloippocampali: ecco scovato il focus epilettogeno!

Adesso, mentre con la sonda ecografica sondano il parenchima cerebrale, sto capendo o almeno credo di capire. La terapia farmacologica non ha garantito la risoluzione dello stato epilettico super-refrattario né un suo equilibrio. L’unica soluzione, si, quella senza via di ritorno, è asportare quello che epidemiologicamente è la sede più frequente dell’insorgenza di crisi epilettiche: il lobo temporale con ampliamento alle strutture amigdaloippocampali per garantire un risultato efficace.

Aspetta un attimo.
Stiamo parlando di exeresi di una parte enorme di cervello?!
SIAMO IMPAZZITI?! Dove è finito quello squisito minimalistico approccio che fa della neurochirurgia la chirurgia più nobile e delicata?

Torniamo là, a quel sabato, a quello straziante urlo silenzioso, a quella vita che lottava con tutte le sue ultime forze.

Riconosciuto il focus epilettogeno, si passa alla fase microchirurgica. Con l’ausilio del microscopio, si asporta en bloc la punta del lobo temporale a circa 4 cm dal polo fino alle strutture mesiali.
Si procede quindi al reperage del corno temporale la cui parete laterale viene aperta per circa 2 cm. Si procede quindi ad asportare en bloc la testa dell'ippocampo. Si arriva per via subpiale a suggere le circonvoluzioni ventrali al margine libero del tentorio e ad evidenziare il mesencefalo. 
 
Lobectomia temporale con amigdaloippocampectomia
{Journal of Neurosurgery, 119, 2013}
Tutto d’un fiato.
Tutto in apnea.

Si effettua una riverifica intraoperatoria con ecografia. Il prof J guarda soddisfatto il monitor: non ci sono ipercaptazioni, non c’è più alcuna evidenza di focolai epilettogeni.

22:35

8 ore e mezza di intervento.
Un intervento che ha completamente sovvertito quelli che potevano essere i miei preconcetti.
Ancora non ci credevo (e neanche ora, vi assicuro) dell’impatto demolitivo di un intervento del genere: non stiamo parlando di sezionare un po' più di colon, stiamo parlando di asportare una sede voluminosa di cervello, una porzione dell’anima di M.

Si, ma quale è il prezzo? Garantire una via d’uscita.
Definitivamente.
Meravigliosamente.

Vi chiederete come è finita con M.
Ebbene, dopo quel pomeriggio, sono ritornato alle mie attività quotidiane e il sabato successivo sono tornato e al giro visite in TINCH mi aspettavo di ritrovare M. che pian piano recuperava.

Non ci sono molti letti in terapia intensiva.
Non la vedo.
“Le avranno cambiato posto, lo fanno spesso”. Chiedo all’anestesista di turno.
“Non c’è più”.

Quell’urlo si è spento nell’ombra.

“Dopo l’intervento sembrava essere migliorata, dopo 48 ore vi è stato un progressivo peggioramento con la ripresa dello stato di male, complicato da una sepsi polimicrobica multiresistente ed insufficienza d’organo, che l’ha portata via”.

Non sempre si vince, anzi. Il fallimento è più frequente di quanto possa sembrare.
Pur con la forza impattante e demolitiva dell’intervento non posso che pensare a quella definizione iniziale, a quel minimalismo esistenziale.
Anche perché ora, più che mai, mi torna utile.
Ora in questo vortice di sensazioni torna prepotente la base di quel pensiero: concentrati, focalizzati su quello che davvero conta, elimina il superfluo. 
E’ forse questo il senso vero del minimalismo neuroapplicato? Non tanto una tecnica chirurgica minimale quanto piuttosto un’approccio focalizzato ai problemi quotidiani, senza distrazioni assolute.
Ora più che mai quella frase fatta ‘ è stato fatto tutto il possibile’ acquisisce se possibile, un senso ancora più profondo.

Amigdaloippocampectomia.
Il devastante minimalismo nel perseguire lo scopo, indipendentemente da tutto e tutti: garantire una via d’uscita.
Con tutto te stesso.
Con tutte le tue forze.

Amigdaloippocampectomia.

martedì 4 febbraio 2020

Degenerazione walleriana

Degenerazione walleriana.

Fenomeni degenerativi che interessano la fibra nervosa in seguito all'interruzione della sua continuità con il corpo cellulare con conseguente riassorbimento del segmento distale del nervo stesso allorchè sia stato sezionato in tutto il suo spessore.

Avete mai riflettuto su quanto possa essere fragile un nervo periferico?

Un trauma, di entità più o meno intensa, e il nervo perde la sua continuità.
Non va incontro a morte cellulare, ma si ha appunto una compromissione della parte distale al traumatismo che coinvolgerà anche la porzione prossimale nel caso in cui non intervenga un processo di rigenerazione.

Degenerazione walleriana.

Il nervo è l’unico componente del corpo umano che reagisce in questo modo davanti a un evento traumatico, come se non volesse davvero abbandonarsi all’inevitabile esito di compromettersi definitivamente, come se volesse comunque darsi una possibilità, di poter sfruttare qualsiasi chances che l’organismo gli propone per sopravvivere.

La degenerazione walleriana potrebbe essere la parola fine alle possibilità di riscatto del nervo così come aprire la speranza di una rigenerazione fattibile solo se le guaine esterne al nervo rimangono integre.


È un po' come l’essere umano. 

Sottoposto a urti d’impatto variabile, spesso rifiuta di andare incontro ad un’inesorabile resa, quanto piuttosto accetta il compromesso di una degenerazione walleriana di alcune sue parti con la porta sempre aperta ad una rigenerazione redentrice piuttosto che abbandonarsi completamente all’impossibilità di recupero.

Con gennaio ho concluso il mio ultimo mese di tirocinio post laurea in previsione dell’esame di abilitazione che sosterrò a fine febbraio.
Ho frequentato l’ambulatorio di un medico di medicina generale.
Estremamente eccitante al pari della precedente esperienza in chirurgia dei trapianti?
Curiosa e intrigante come il mese di novembre nel reparto di Malattie Infettive?

No, direi di no.
Non sono proprio gli aggettivi migliori per etichettare questo gennaio insolitamente soleggiato passato nel mio cantuccio dietro una scrivania.

Tuttavia, ancora una volta, ho dovuto ricredermi. 

Umanamente prezioso. 
Emotivamente ricco.
Al di là dell’ovvio, al di là del prevedibile.

Nella noiosa iterazione di pratiche burocratiche, rimedi per il mal di gola, ricette per visite specialistiche e auscultazioni di bronchiti stagionali, sono riuscito a trascendere la quotidianità scandita da orari d’ufficio ai quali non ero per nulla abituato.

Scavalcare queste note di facciata per carpire il senso vero della medicina di base, quel senso che dovrebbe essere comune a tutte le sfaccettature della medicina ma che talvolta viene in parte o completamente eclissato in favore di un approccio più specialistico.

Sto parlando della cura del paziente.

Dal latino, cura. Derivato dalla radice ku-/kav- osservare. Da confrontare con il sanscrito kavi, saggio.

La cura è responsabilità. 
La responsabilità che segue l'osservazione. Che sia una terapia medica, una preoccupazione, o un accudire il progetto di una vita altrui.
La cura è responsabilità.
In effetti sembra che sia il lato attivo, il paradigma dell’umanità stessa, di un’umanità salda nel suo più profondo essere, un’umanità non fatua, non impalpabile, ma concreta. 

Riconoscere il bisogno di chi si siede dall’altro lato della scrivania.
Che ti guarda con occhi imploranti, che nasconde nella richiesta di un analgesico più forte del FANS di turno una necessaria e urgente impellenza di parlare con qualcuno per poter trovare un aiuto contro il dolore che sia più incisivo, che non permetta di arrendersi.
Hai il dovere morale, la responsabilità di incrociare questi sguardi.

Degenerazione walleriana.

Ho avuto modo, ho avuto la fortuna di osservare l’umanità più fragile, più autentica.

Negli occhi di una giovane mamma disperata per il figlio cocainomane.
Negli occhi fieri ma velati da lacrime quasi invisibili di un anziano vedovo, spaventato dalla solitudine.
Negli occhi terrorizzati di una neomamma immigrata, preoccupata dalla tosse persistente del neonato figlioletto.

Negli occhi coraggiosi, capaci di darsi un margine per rigenerarsi.

Le lesioni neuroaprassiche sono quelle in cui il danno colpisce specificatamente il rivestimento mielinico delle cellule di Schwann mentre viene preservata sia la continuità assonale che le altre guaine del nervo.
Clinicamente e strumentalmente la conduzione nervosa è rallentata o assente, sebbene essa sia preservata prossimalmente e distalmente alla lesione. Queste lesioni sono generalmente localizzate e rappresentano il grado più lieve di lesione nervosa. Esse sono reversibili, con pieno recupero della funzione che solitamente si verifica entro settimane o alcuni mesi dal trauma.


È la storia di Gino, vedovo da 3 anni, che dissimula la solitudine del suo piccolo appartamento in un vecchio condominio con numerose attività di volontariato per la parrocchia, per il gruppo locale degli Alpini, per i nipotini da accompagnare a scuola e al pallone. Venire dal medico, quindi, è un modo come un altro per ritrovare una faccia amica, per poter sì descrivere quella tosse fastidiosa che non lo fa dormire la notte, ma sopratutto per poter ricevere un sorriso, un segno di umana vicinanza.
Nonostante tutto.
La conduzione nervosa è rallentata, il danno c’è. Ma le possibilità di riscatto ci sono, la lesione non ha compromesso integralmente la capacità di condurre.


Le lesioni assonotmesiche sono più severe e sono caratterizzate da una interruzione degli assoni con preservazione delle guaine più esterne (endonervio, perinervio ed epinervio). Si verifica una degenerazione walleriana diretta ed il recupero è legato al processo rigenerativo assonale. Il recupero è completo anche se i processi rigenerativi sono lenti (circa 1 mm al giorno con ampie variabilità da soggetto a soggetto a seconda dell'età e dello stato generale di salute) e legati alla distanza tra la sede del trauma e quella dell'attività del nervo.

È la storia di Amina, neomamma senegalese, spaventata del malanno del suo piccolo. Ne ha subite troppe e fidarsi del parere di un quasi sconosciuto dietro una scrivania, non è immediato, non è facile.
Il recupero è legato al processo rigenerativo assonale, completo anche se molto lento.
Saranno le parole del medico, il suo modo di porsi, professionale e amichevole, che potranno forse fare breccia nelle imponenti difese che Amina ha creato attorno a sé per quella lesione che le ha tolto la facoltà di essere serenamente sé stessa e poter così condurre liberamente.
Recupero lento, ma completo. Le parole del medico si traducono in consigli che accetta di buon grado, perché sa che così facendo, suo figlio potrà guarire.

Micrografie fluorescenti (100x) della degenerazione 
walleriana nei nervi periferici.
 Sx è prossimale alla lesione, dx è distale. 
A e B: 37 ore dopo il taglio. C e D: 40 ore dopo il trauma. 
E e F: 42 ore dopo il taglio. G e H: 44 ore dopo il trauma.
Le lesioni neurotmesiche rappresentano il grado più severo di lesione di un nervo periferico. Queste lesioni sono ulteriormente suddivise a seconda se è stato leso l'endonervio (3º grado), oppure l'endonervio e il perinervio (4º grado) oppure l'interruzione è stata totale (5º grado). In questi casi la rigenerazione spontanea è possibile (nel 3º grado) ma improbabile a causa dei fenomeni cicatriziali che avvengono all'interno dell'epinervio nei primi due gradi di neurotmesi, e impossibile nell'ultimo grado. Queste lesioni perciò richiedono una
riparazione chirurgica, che deve essere effettuata in tempi rapidi anche se non in urgenza e questo per evitare che insorga la degenerazione degli assoni a monte del trauma e al conseguente disfacimento del neurone.



È la tragica vicenda di Fiorenza che vede il suo unico figlio 23enne, di belle speranze, nella vorticosa spirale della tossicodipendenza, orrida bestia che trascina e rovina anche il più forte degli esseri umani. 
È una lesione netta, grave, quasi irrimediabile. Il nervo prova a risolvere il problema da solo, ci tenta in tutti i modi, ma non sembra esistere alcuno spiraglio per potersi rigenerare. L’unica possibilità è aspettare l’intervento del chirurgo, aspettare l’intervento dello specialista che potrebbe apportare con urgenza e con rapida professionalità un aiuto insperato per il ripristino della funzione.
Si, le cicatrici saranno inevitabili ma la capacità di condurre potrebbe essere garantita. Ed è così che Fiorenza ha trovato, tramite il medico di base, una realtà comunitaria che avrebbe potuto accettare il figlio già dall’indomani, individuando così in questa associazione, il proprio chirurgo che avrebbe provato a riallacciare i frammenti della lesione.

C’è sempre uno speranzoso barlume al traumatismo, una via d’uscita per la degenerazione walleriana, peculiare e altrettanto inevitabile.

Assaporare la medicina generale mi ha donato questo. 
Un regalo gratuito, tanto inaspettato quanto unico.
Interfacciarsi con la profondità dell’uomo.
Fragile. 
Inequivocabile.
Granitica.
Enigmatica.

È come trovare il modo d’andare fuori misura nella misura, di garantire liceità all’umana empatia fornendo sempre la possibilità di individuare nella misura del proprio ruolo il mezzo per favorire la rigenerazione dal traumatismo.

Sconfiggi la degenerazione walleriana, anche nel tuo piccolo.
Non importa il grado della lesione, un modo per ricomporsi esiste.
Dentro di te, vicino a te.