Un timido raggio fa capolino attraverso gli sporchi vetri di un treno che taglia la pianura con noncuranza della vita che gli scorre vicino.
Oggi è un giorno strano, diverso. Non sono andato in ospedale ma alla cerimonia di consegna dei diplomi di laurea che la mia università organizza annualmente.
La solita baggianata istituzionale, potranno pensare in tanti.
Ma io credo in qualcosa d'altro. L'ho vissuto piuttosto come un momento per riflettere davvero su quello che è successo qualche mese fa e ora è scritto in bella grafia su una pergamena che sa di antico.
Forse sono solo io che ho sensazioni un po' strambe.
Il tutto per un pezzo di carta? Beh, cambierei articolo: IL pezzo di carta.
Quel pezzo di carta che significa sei anni di sveglia alle 5.30 e rientro quando compariva magicamente il treno o finiva l’attività, quel pezzo di carta che assume le forme dei tomi che mi hanno provocato qualche indigestione e altrettante soddisfazioni, quel pezzo di carta che nasconde tra le righe legami di sincera amicizia che non tutti hanno la fortuna di creare, di vivere.
Quel pezzo di carta..
Mentre scrivo e forse acquisisco sempre più quello che questo 2019 mi ha regalato, non posso non pensare a ieri e che forse rende giustizia e fa assumere a quel pezzo di carta un valore aggiunto.
Una giornata dai contorni dell’assurdo: iniziata alle 06:51 e conclusa alle 22:23.
Una giornata contraddistinta dall’ansia, dalla soddisfazione, dall’ansia, dall’ansia e dalla serenità.
Si ma ancora chirurgia generale?
Ebbene si, per questo mese di frequenza per i tirocini dell’esame di stato dovete sorbirvi qualche escursione in un mondo diverso da curiosi sintomi neurologici e altrettanto indaginosi interventi sul cervello.
E’ tuttavia un mondo che lascia a suo modo senza parole, se uno ha il coraggio di lasciarsi affascinare.
Parlo di coraggio, non a caso perché sto vivendo un assaggio del significato del termine 'chirurgo', di cosa si nasconde dietro quella divisa-pigiamino: un impalpabile figura forgiata dal coraggio più puro, che spero un giorno non lontano farà rima
con il mio futuro.
E’ un coraggio quasi incosciente, quello di trascorrere una media di 12-13 ore al giorno in un contesto, quello ospedaliero, che risucchia progressivamente le tue energie, ti sfianca ma d’altro canto ti dona tutto.
Anche da semplice tirocinante, ne ho avuto un assaggio.
Uno di quegli assaggi che vorresti si tramutasse al più presto in un piatto succulento.
Un assaggio che ha il sapore di quella che tanti potrebbero etichettare come banale linfoadenectomia inguinale, per passare al piatto principale sotto le sembianze di un trapianto bipolmonare e per finire un intervento in urgenza, di quelli che fanno paura solo a sentirne parlare.
Vi chiedo scusa, quando ripercorro gli spezzoni di eventi così, non riesco a frenarmi, non voglio frenarmi: vuoi solo scrivere, spezzare i lucchetti che intrappolano malamente i pensieri, dando così loro una vita.
Un libero pensare tradotto a parole.
Ora vi racconto, con calma.
Forse.
La mia giornata è iniziata la sera precedente quando la strutturata di turno mi chiama al telefono per avvisarmi che mi aveva segnato nell’equipe dell’attività operatoria dell’indomani, causa mancanza di specializzandi.
Ok, ora immaginate un Sergio spaventato ed entusiasta allo stesso tempo: intervallavo momenti di lucida ansia dipinti da un continuo leitmotiv ‘ma che mi fanno lavare che io metto punti alle banane e ai mandarini?’ a sensazioni di esaltata gioia per cui ‘prendi al volo queste occasioni, che sono solo ora che cola!’
Un bipolarismo non piacevole che mi ha accompagnato involontariamente (o forse no?) per tutta la notte.
Una notte rapida perché la sveglia suona presto, che per l’attività operatoria devi essere pronto per le 7.30 in sala: pronti e via, cuffietta e mascherina indossata, sono pronto!
Il primo intervento è una linfoadenectomia inguinale per una sospetta recidiva di linfoma B follicolare. Chi è già stato in una sala operatoria di chirurgia generale, concorderà con me la benchè minima assenza di eccitazione in un intervento della durata massima di 20 minuti, rapido, indolore e tecnicamente facile.
Ok, aspiro, traziono, taglio, un punto qui, uno là: finito.
Se è una giornata così posso sopravvivere dai.
Sarà una giornata scandita da 20 minuti di lavoro: si va a casa presto suvvia.
Povero illuso.
Secondo intervento, indovinate un po'?
Si, ci avete azzeccato: linfoadenectomia inguinale destra.
Mi preparo e mi metto sul lato controlaterale della sede dell’intervento così il primo operatore può lavorare indisturbato sul lato giusto. Peccato che appena arrivata la strutturata, si mette a sinistra e mi affianca. C’è qualcosa che mi sfugge, la guardo, mi guarda e un po' spazientita mi fa: ‘Che problema c’è? La prima volta guardi, la seconda lo fai! Su vai al lato giusto e togli quel linfondo.’
Ah, ok.
Da solo.
Un intervento chirurgico.
In un’area anatomica in cui comunque passano i vasi femorali, non proprio i capillari del mignolo del piede.
Ok, respira, focalizza e ripercorri mentalmente cosa hai visto prima: incidi, coagula, scolla, isola, lega, seziona, asporta, lava, controlla l'emostasi, sutura per piani.
Si, si può fare.
‘Bisturi, per favore’.
Si comincia.
Ok, non ci ho impiegato i canonici 20 minuti (anzi!) però posso assicurarvi che quella sensazione di operare, seppur un semplice linfonodo, ha assunto i connotati dell’ulteriore conferma che la sala operatoria è dove voglio stare.
Niente scuse, nessun ripensamento.
E’ così, senza ombra di dubbio.
Dopo il secondo linfonodo ho assistito ad altri interventi minori (ernioplastiche inguinali e crurali, fino all’ora di pranzo circa).
Bene, siamo sotto le feste e hanno a disposizione la sala operatoria solo per mezza giornata: il mio l’ho fatto. Grazie a tutti, buon pomeriggio.
Ah, l’illuso. L’avevo già detto?
Eccoli arrivare a velocità sostenuta e con fare incalzante i due chirurghi che erano stati chiamati da un ospedale del centro Italia per recuperare i polmoni da un donatore che risultavano essere perfetti per un paziente ricoverato per una fibrosi polmonare idiopatica.
Volete non assistere a un trapianto bipolmonare?
Rapidamente si va in H24, la sala operatoria che non dorme mai, il regno dove Morfeo non osa avvicinarsi ed ecco, in quattro e quattr’otto mi ritrovo ancora lavato: fai da secondo su un trapianto? Eh..manca chi può aiutare.
Pronti e via, un tour de force di 9 ore circa suddiviso nei due tempi chirurgici dell’intervento (espianto-impianto), la cui nota da ricordare è forse stata quel ‘Su Capelli, tienimi il cuore e giramelo bene perché devo isolare arteria e vena polmonare, ma non stringerlo troppo forte e non fargli venire aritmie fatali, eh.’
Ah, tenere un cuore in mano.
Io non so più come dirvelo, se non che adesso mentre lo scrivo e ripercorro quegli attimi, sento quel brivido, quella sensazione che sono certo anche voi avete la fortuna di provare quando si tratta di un’emozione intensa, quel genere di fremito involontario ma altrettanto ben gradito.
Il trapianto è complesso e richiede il coinvolgimento del primario che, al pari di un’evocazione, compare in un’aura quasi magica tratteggiata da quell’esperienza di chi ne ha viste proprio tante. Mi faccio umilmente da parte e osservo.
Si, più che osservare, rimango in trance.
Il movimento di quelle mani che dolcemente ma con ferma decisione, sanno dove andare, cosa legare, sezionare, quali strutture unire tramite anastomosi perfette.
E il tempo vola e viene messo l’ultimo punto di cute: nel mentre l’esecuzione di un miracolo, che prende le forme di un trapianto.
Basta, direi che per una giornata è troppo già così.
Troppi stimoli, troppi eventi da metabolizzare.
Si, credici.
Bimbo di 11 mesi, paziente del prof trapiantato di fegato con una perforazione in atto.
E’ da operare d’urgenza! Bisogna scoprire cosa è coinvolto e bloccare il problema sul nascere.
Quindi, quale migliore occasione per lavarsi e fare da assistente al primario?
Si, ho scritto bene. Lo strutturato, con serenità disarmante, mi spinge a operare con il primario ‘tanto fa tutto lui, chiunque può andare con lui, forza vai tu’.
Ah, vabbè, dovrò svolgere l’abile arte del divaricatore umano: posso farcela.
E così è: si, per i primi 5 minuti quando poi decide di mettere i divaricatori autostatici. Ok, guarderò da un posto privilegiato un intervento del primario.
Devo smettere di farmi strane idee e illudermi.
Ogni.
Maledetta.
Volta.
‘Guarda sembra sia colpa del duodeno! Ti va di cominciare a mettere tu i punti e provare a chiudere?’ Alzo lo sguardo e vedo che mi sta porgendo porta aghi con il punto montato e pinza anatomica. Con mano tremante mi avvicino alla lesione sulla superficie del duodeno e provo a far passare il punto, ma sembra che il tessuto non tenga. Ha una consistenza strana, i punti affondano senza però tenere una volta che provo a chiudere.
‘E’ normale, questo duodeno è fatto così: riprovaci’.
Ci riprovo, forse due saranno rimasti al loro posto. Con gli altri tentativi mi sembrava solo di aver peggiorato le cose. ‘Ok dai, è un buon inizio, vado avanti io e tu stammi dietro’.
Una parola.
Rapidamente chiude la lesione, l’emostasi è ben controllata. Si può richiudere con serenità.
Mi svesto. Saluto il personale di sala. Vado nello spogliatoio.
Mi siedo, finalmente.
Sorrido come un ebete.
A distanza anche solo di un giorno, quel pezzo di carta è davvero manifesto di qualcosa di grande.
È prova scritta di un percorso in divenire, di una scelta che volontariamente sto facendo giorno dopo giorno.
È qualcosa che dà idea di chi sono e chi voglio essere, nero su bianco, tramite parole scritte, le mie amiche preferite.
Il treno è arrivato in stazione. Fa freddo e piove.
Ma continuo a sorridere.
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