Sapete che il termine ‘precisione’ è etimologicamente definito dall’attività preferita dei chirurghi? Deriva infatti dal latino, praecisiōne ‘taglio, recisione’, derivato di praecidĕre ‘tagliare’: esattezza assoluta, assenza di qualsiasi errore, accuratezza, meticolosità nel fare qualcosa attraverso l’eliminazione degli elementi superflui, dei contorni in eccesso.
E sapete perché precisione e chirurgia sono vecchie compagne? Perché nulla è lasciato al caso. L’attenzione millimetrica al dettaglio va a braccetto con l’applicazione pratica di quella che nel mondo delle chirurgie ne è, a mio modesto parere, la regina incontrastata: la neurochirurgia.
E’ una cura scrupolosa che non si traduce in un’ansiogena ricerca del dettaglio fine a sé stesso, ma che si sposa con il raggiungimento di un obiettivo complesso, mantenendo in questo contesto un’aura quasi mistica di leggerezza. Ed è così che prendono vita le parole di Calvino: “la leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso.”
Lo sapete, mi piace prenderla alla larga. Tanti orpelli per decorare il fulcro centrale.
Ebbene, in questi primi mesi da specializzando di neurochirurgia ho avuto spesso questa concezione di precisione sotto gli occhi ma, forse, mai tanto quanto un weekend in cui ero di guardia.
Se vi dicessi che, solo a ripensarci, il mio ritmo sinusale tentenna perdendo qualche battito?
Non è un eufemismo.
Chiedetelo al me di quella domenica mattina, spaventato e stordito, elettrizzato e pietrificato al tempo stesso.
Chiedetelo allo strutturato di guardia e al reperibile che ho affiancato in quell’intervento, che con una calma e un’esperienza invidiabile hanno saputo gestire la fantomatica situazione da “emergenza assoluta”.
Chiedetelo agli anestesisti di sala reperibili, abituati a sfide mediche indicibili, ma che, in casi come questo, incrociando quegli occhi ti rendi conto che anche loro percepiscono l’enormità del momento.
Chiedetelo ai medici di PS, che hanno dovuto accogliere una circostanza non frequente ma che, con rapida professionalità, hanno modulato il percorso di quell’emergenza.
Chiedetelo a quel cucciolo d’uomo che ha visto nel giro di poche ore il suo mondo collassare in un nauseante e pericoloso vortice verso un sonno senza sogni e dal tortuoso risveglio.
Non voglio soffermarmi sui tecnicismi chirurgici.
Voglio indugiare sul silenzio concitato che ha animato improvvisamente una domenica qualunque: sul rapido incedere di un’emergenza che necessitava di un intervento salvavita di lì a poco.
Voglio attardarmi a ripensare a quel semplice gesto: alla precisa aspirazione di pochi cc di liquor in eccesso che è stata in grado di dare agio ad un giovanissimo cervello in difficoltà, potendo così dar tempo ad intervenire in maniera più mirata.
Voglio sostare su quelle mani, si, anche le mie mani, che si affaccendano su quel piccolo corpicino: dall’incisione cutanea a livello frontale destro, al foro craniotomico, al catetere prossimale, a quella valvola in difficoltà, all’ansia di tenere in sede a livello del tramite craniotomico con quel klemer coperto il catetere ventricolare, a quella minuta cavità addominale, a quelle fastidiose aderenze tra gli strati profondi addominali, all’introduzione del nuovo sistema, alla silenziosa gioia nel constatare la ripresa di una normale funzionalità del supporto salva-vita, alle fasi di chiusura dell’incisione, ai miei punti in dafilon su quella cute che a livello cranico aveva subito fin troppi maltrattamenti, alla medicazione compressiva che con cura copriva il tutto, al gesto, quasi amorevole, di aprire le palpebre e verificare il fisiologico diametro pupillare bilaterale…
…respira.
Non una ma più volte, al termine dell’intervento, ho avuto la necessità di guardare quelle pupille.
Più volte per accertarmi di aver riacciuffato quella piccola vita.
Più volte per sincerarmi, insieme agli altri operatori, che avevamo agito al meglio.
Più volte per poter incrociare lo sguardo di quegli anestesisti, che ci avevano supportato incredibilmente in quelle interminabili ore, e poter così sorridere con gli occhi: “si, l’emergenza è rientrata, ora possiamo davvero respirare”.
Vivere ore del genere, non come semplice spettatore in un angolino, ma come parte attiva, come elemento di un ingranaggio meccanicistico oliato alla perfezione è a dir poco incredibile. A volte mi chiedo come sia possibile essere da questa parte, come è possibile che in così poco tempo abbia la fortuna, l’incredibile possibilità di essere un elemento nel disegno di attuazione di un vero e proprio miracolo.
Un miracolo che si attua solo per l’essenziale concretezza dei suoi protagonisti che si traduce in rapide e definitive scelte. Un po' come era solito dire Victor Hugo: “concision dans le style, précision dans la pensée, décision dans la vie” [Concisione nello stile, precisione nel pensiero, decisione nella vita].
Un monito che, se ci pensate, ha un impatto devastante: essere chirurgicamente precisi nell’escludere ciò che oscura o semplicemente nasconde l’essenziale.
Facile nascondersi dietro alla massima de “l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Non ci ho mai creduto, a essere sincero.
A maggior ragione dopo aver vissuto quella mattina.
A maggior ragione dopo essere stato partecipe di un intervento chirurgico che, nella sua concisa essenzialità, ha permesso a quel bambino di potersi poi svegliare e ritornare a comunicare coi propri genitori.
L’essenziale deve essere la bussola che guida la precisione: quella chirurgica non ha solo applicazione in un’asettica sala operatoria.
Penso, anzi credo fermamente, che questo approccio sia utile anche nel quotidiano. Spesso ci addormentiamo in una grigia normalità senza che ci sia il coraggio di riflettere, senza che ci sia lo stimolo per chiedersi chi si è per davvero, perdendo l’abitudine di guardarsi allo specchio per togliere così i contorni e arrivare all’essenziale. Ecco allora che va creato lo stato d’emergenza: che sia una poesia letta per caso, una canzone ascoltata a tutto volume sulla strada di ritorno, un’alba schermata dalle vetrate sporche di un anonimo ospedale, una domenica qualunque sconquassata nella sua normalità da una piccola creatura bisognosa di cure straordinarie.
Certo, incidere con fermezza per asportare l’ombra non è attività da primo giorno da specializzando: richiede il suo tempo, fatiche, lacrime, sudore, sorrisi. Ma, per questi apparenti limiti, non dobbiamo lasciarci impaurire.
Perché vi assicuro che questa evidenza dell’essenziale si tradurrà nel nostro personalissimo miracolo.
Perché la gente fa tanto caso ai miracoli ?
Per quanto mi riguarda io non conosco altro che miracoli,
sia che passeggi per le vie di Manhattan,
o levi il mio sguardo sopra i tetti, verso il cielo,
o sguazzi coi piedi nudi lungo la spiaggia, proprio sul filo dell'acqua,
o mi fermi sotto gli alberi, nei boschi,
o parli, di giorno, con chi amo, o dorma, di notte, accanto a chi amo,
o sieda a pranzare a un tavolo insieme ad altri,
o getti uno sguardo agli estranei che viaggiano in tram di fronte a me,
o spii le api che nei pomeriggi d'estate si affaccendano intorno all'alveare,
o gli animali al pascolo nei campi,
o gli uccelli, o gli straordinari insetti dell'aria,
la meraviglia del tramonto, le stelle che brillano placide e luminose,
o la delicata sottile curva della luna nuova in aprile;
queste cose, e le altre, una e tutte, sono miracoli per me,
a tutto si riferiscono anche se ognuna è distinta dalle altre,
e al suo posto.
E' un miracolo per me ogni ora di luce e di buio,
è un miracolo ogni centimetro cubo di spazio,
ogni metro della superficie terrestre è impregnato di miracolo,
formicola di miracoli ogni centimetro del sottosuolo.
Il mare è per me un miracolo senza fine,
i pesci che nuotano - gli scogli - il moto delle onde -
le navi che portano gli uomini,
quali i miracoli più strani di questi ?
W. Whitman
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