domenica 29 agosto 2021

Cascata

Se si avesse la fortuna di interrompere lo scorrere del tempo.

Se fossimo dotati del coraggio di bloccare in un’istantanea quel frangente di momento.

Se riuscissimo a cristallizzare quel dinamico Pánta rheî in un solido ricordo cui attingere nelle ore di sconforto.

 

Allora forse il disegno riuscirebbe ad acquisire una sua personale e unica fisionomia.

 

Ma una vita di se è difficile da tradurre in significato.

Il susseguirsi di se in realtà riesce, tante volte, a diventare tangibile solo in una reazione a catena che con violenza e forza primigenia ti scaraventa al suolo.

Senza mezze misure.

Senza tanti fronzoli.

Con ardore ti travolge, ti inghiotte, ma allo stesso tempo è capace di filtrare la luce fioca del giorno in un tripudio esaltante di colori vividi.

 

È come una cascata.

Un terribile e meraviglioso gioco di spruzzi e di schiuma e di fragore, che ti trascina in un flusso trasparente che vibra tra i muri piastrellati di una sala operatoria, tra gli occhi incredibilmente svegli del personale di sala in orari improponibili, tra mani guantate e veloci che cercano di salvare una vita, tra un delicato ma resistente punto di sutura sulla dura madre e un vigoroso craniotomo chiamato ad aprire una breccia per quella che è l’ultima chance…

 

Così sono state le mie ultime tre settimane di rientro dalle ferie estive.

Come una cascata.

 

Una dinamicità quasi violenta che mi ha risvegliato da un torpore di salsedine, richiamandomi a numerose prime volte.

La mia prima DVE.

La mia prima craniotomia.

I miei primi sottodurali acuti.

 

In queste settimane ho assaporato con occhi innamorati ogni singola prima volta: era come se il mondo avesse improvvisamente smesso di girare, come se la gente intorno a me fosse scomparsa, tutto dimenticato. 

Come se quella chiamata alle 21.35 di 14 secondi della vigilia di ferragosto, scandita da “forza vieni che il pz dell’aneurisma di oggi è in idrocefalo e devi mettere la dve” e dal mio tentennante “si, arrivo” mi avesse travolto a tal punto da non rendermi conto dell’iperattivazione del mio sistema simpatico. 

Una cascata tale di sensazioni da compromettere, ad oggi, il ricordo vivido degli istanti prima di rivolgermi alla strumentista.

 

Bisturi.

 

E seguire quella linea tracciata a pennarello in fretta e furia secondo i dettami stabiliti dalla craniometria, e scolla il periostio e prendi il craniotomo e schiaccia il pedale e rimani perpendicolare al tavolato osseo e spingi e spingi.

E arrivare alla dura madre, con delicatezza aprirsi la strada e prendere il catetere e spingerlo per quei 6-7 cm nel parenchima cerebrale. Quasi alla cieca, quasi alla disperazione, sperando, una volta tolta la guida metallica, di veder zampillare il liquor… ed eccolo lì gorgogliare allegro.

 

Come una cascata.


 

E la scenografia rapidamente cambia integralmente e rimane la stessa a distanza di pochi giorni.

Tolta la componente adrenalinica dell’urgenza, ritrovarmi al posto d’onore, quello del primo operatore a procedere per la primissima volta a operare da primo dall’incisione cutanea fino all’apertura durale per un intervento di asportazione di lesione cerebrale.

E se l’adrenalina non scorreva a fiumi tra i componenti della sala, era solo perché era tutta concentrata nelle mie mani che quasi tremanti si apprestavano a fare la mia prima incisione cutanea curvilinea frontotemporale.

Scolla i tessuti sottocutanei, disseca, coagula, incidi, esponi, ribalta, lava. 

Ti ritrovi la porzione di cranio lì davanti, lucida, riflettente quelle luci artificiali che provano a far filtrare un po' di calore.

Controlla sul neuronavigatore, non vuoi ledere il seno sagittale superiore la prima volta che fai un foro craniotomico su un intervento del genere.

Perpendicolare. Premi. Tieniti forte. Tre fori. 

 

Respira. O forse no, rimani in apnea. Non è finita.

 

Cambia strumento, è nuovo. Più fine, molto più delicato. Devi unire i fori così da asportare il lembo osseo e accedere al parenchima sottostante. Con calma ma con forza. 

Agisci. Sei sul parenchima.

Un turbinio di eventi che hanno azzerato il contorno, capaci di creare un’eco devastante e un urlo micidiale nel religioso silenzio di una sala operatoria di neurochirurgia.

 

Come una cascata.

 

E torniamo all’ora del crepuscolo.

Quando il mondo cerca pian piano di calare il sipario sulla giornata che è stata, ecco che un trauma cranico è capace di interrompere il regolare fluire delle ore e anzi catapultarti.

Come se il fragore generato dell’anestesista che urla ordini per tenere la PA a valori umani, dalla concitazione del neuroradiologo a interpretare quelle immagini della scala dei bianchi e grigi a monitor e dalla calma quasi serafica dello strutturato a scandire gli attimi come il migliore dei direttori d’orchestra, potesse in realtà spingerti lì, sul bordo di un abisso.

Con la tentazione quasi di cadere se non fosse per quella voce “forza, tocca a noi”.

E non una ma ben due sere, a distanza di pochi soli l’una dall’altra, sono state dettagliate da questo coacervo frenetico di movimenti, da quella babele di voci silenziate dal bip rallentato in sala operatoria.

E quella sera in tre ad aiutarci per evitare che quel parenchima cerebrale non erniasse dai bordi della craniotomia, fino a quell’altra notte che con pacata e delicata tecnica aiutavo a creare uno squarcio nella vita di qualcuno per permettergli di riacquisire progressivamente un’isocoria che per noi fa rima con “ok, puoi ricordarti di respirare. Ora”.

E sono quegli sguardi di timido sollievo con chi ti ha assistito, mentre richiudi delicatamente, che ti fa sentire parte di un qualcosa che non si spiega a parole, perché sei riuscito a regalare una chance di vita. Un sollievo che si infrange con violenza al suolo come la più impetuosa delle cascate, quando assisti al colloquio con chi amava quel qualcuno, quando le voci sono rotte dall’emozione di partecipazione a quello che forse ci rende più umani. Il dolore.

 

Come una cascata.

 

Ed è col trascorrere dei giorni, quando questi si quietano in una placida e regolare quotidianità in reparto, che quelle ore che sembravano così interminabili quanto fugaci, sembrano tanto lontane e tanto sfocate.

Quasi come se fossero un sogno, un tratto dalle tinte oniriche in cui una fragorosa cascata si è portata via tutte le immagini e le parole che ho sognato, lasciandomi solo la sensazione di essere stato, per qualche attimo, in quel flusso.

 


Ma ecco che subito vieni smentito.

E quel boato intenso in realtà ritorna vivido alla mente grazie alle parole di chi ti ha supportato in ogni istante, agli sguardi di chi vuole sapere, alle immagini e ai dati clinici che impietosi non ammettono appelli.

 

Ma come ogni prima volta non potrà mai più essere rivissuta dato l’incessante mutamento del tempo, dato il perpetuo divenire che armonicamente regola il tutto, così quel susseguirsi di sensazioni vere, di gesti spontanei, di mani che aprono santuari inviolabili, di dita che stringono vincoli di seta, mi ritorneranno alla memoria con violenza ogni qual volta si ripresenterà quell’evento, scaraventandomi ancora una volta, in quello che pian piano, sta diventando, il mio posto nel mondo.

 

Come una cascata.

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