mercoledì 9 dicembre 2020

Piove

 Piove.

Tempesta.

 

Fuori dalla mia camera, dentro la mia anima.

La ruota degli eventi gira caotica, raffazzonando un senso, una direzione per poter garantire il ripristino dell’armonia del quotidiano. O almeno, un accenno di normalità.

 

Piove e viviamo in un romanzo distopico.

Tempesta ma siamo sospesi, fluttuanti in un etere di sogni, speranze e diritti mancati.

 

È da qualche giorno ormai che la paradossale situazione che sto vivendo come giovane medico, come camice grigio (per i non addetti ai lavori, dicasi camice grigio il medico abilitato non specializzato), è sulla bocca di tanti: testate giornalistiche di tiratura nazionale, programmi radio ascoltati da migliaia di orecchie, testimoni inconsapevoli di tale dramma, servizi ai Tg nazionali perché si sa, finchè non c’è scalpore mediatico, non esiste la notizia o almeno non vale la pena che venga venduta sugli schermi.

È il paradosso di avere migliaia di medici bloccati da raggiri burocratici che da mesi hanno congelato le pratiche e non permettono loro di concludere in pace le normali procedure di assegnazione, immatricolazione ed inizio presso una scuola di specializzazione di stampo medico o chirurgico.

È l’ennesimo schiaffo che umilia il nostro essere giovani professionisti, il nostro essere persone.


 

Piove ma potrebbe non essere un male, in fin dei conti.

Perché ci ricorda che è parte di quel prezioso e perfetto equilibrio che l’ecosistema chiama vita: la natura e le leggi che la governano non cercano di sviare, di mostrare una completa assenza di cambiamenti disadattivi di fronte allo scorrere del tempo, innanzi allo stress indotto dai giorni che scorrono. 

No, piove, tempesta e la natura rimane salda, regolandosi a mantenere una delicata omeostasi.

 

La natura è lo specchio dei suoi numerosi abitanti variopinti, noi, esseri umani.

Attenzione però, alla fine noi umanità non siamo così statici, non siamo e basta. 

Sposo il concetto di Heinz von Foerster: dovremmo considerarci divenire umani e non esseri umani

Soggetti in grado di modificarsi, di adattarsi alle dinamiche del quotidiano, qualunque esse siano nonostante non si possa discendere due volte nel medesimo fiume perché tutto scorre, tutto scivola via. La natura però hai dei capisaldi a cui appellarsi, che emergono anche quando tutto pare andare rovinosamente.

 

E noi divenire umani cosa abbiamo?

La resilienza.

 

Termine abusato se ne esiste uno, viene inquadrata dall’American Psychological Association come "il processo di adattamento a fronte di avversità, traumi, tragedie, minacce o significative fonti di stress’’.

La classica definizione che accettiamo per un esame scritto all’università ma che qui non ci soddisfa, o almeno non soddisfa me.

 

Continua a piovere e un aroma di caffè caldo si sparge, forte, in questi pochi metri quadrati.


Sembra scontato usare l’odioso ‘Su dai non mollare’ tradotto accademicamente ed elegantemente in ‘resilienza’ per far fronte a quello che io con altri 24mila colleghi e amici stiamo esperendo. 

Ma non riguarda solo noi nati nei primi anni ’90 con questo folle e coraggioso desiderio di spendere la vita nelle quattro fredde mura di un ospedale, riguarda ciascuno di noi.

 

Si, anche te che hai avuto lo sbatti di arrivare fino qua.

Te e la tua voglia di divenire.

 

Quasi magicamente questa proprietà umana di presentare processi protettivi o positivi che riducano gli esiti disadattivi in condizioni di rischio, ha un tradotto concreto che fa rima con neuropeptidi, connessioni sinaptiche, definizioni epigenetiche.

Cercate la parola chiave resilience su Pubmed e troverete reviews varie che descrivono meglio quanto sto per accennare. Definendo come basilari i ruoli del sistema nervoso autonomo e dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel coordinare le risposte neurocomportamentali alla minaccia e ad altre forme di stress, sono diversi gli autori (Cathomas, Pfau per citarne alcuni) che considerano il concetto di resilienza come un processo che richiede l'integrazione di più sistemi centrali e periferici, che vanno da circuiti cerebrali specifici a fattori umorali del sistema immunitario e cambiamenti all'interfaccia tra il cervello e la periferia.

Addirittura, Pfau et al. hanno studiato il ruolo dei microRNA nel mediare le risposte infiammatorie e comportamentali allo stress nel modello della sconfitta sociale: hanno mostrato differenze preesistenti nel rilascio dei leucociti dell'interleuchina-6 che predicevano se un singolo animale svilupperà un fenotipo sensibile o resiliente. 

 

Insomma, un piccolo accenno per evidenziare quanto profondo e intricato e meraviglioso sia il percorso di definizione di una delle capacità che non ci tratteggiano come esili canne sbattute dal vento ma come possibili poderose querce ben radicate a terra.

 

E ancora una volta nei miei deliri raggruppati a guisa di patetico tentativo di testo unico, traspare evidente quella che è quell’ammirazione sconfinata verso il più misterioso organo della cattedrale del nostro corpo: ecco il cervello che con malcelata umiltà sottolinea a suon di connessioni neurali e microscopici messaggeri, il nerbo che dà origine alla nostra capacità nel divenire, nostro e del mondo, di resistere, di adattarci, di crearci un significato che dia senso a tutto quello che viviamo.

Dà origine al nostro essere resilienti. Al nostro divenire resilienti.

 

Quindi dai, un commovente tentativo di tradurre in scientifichese la famosa perla: ''Perché cadiamo, signore? Per imparare a rimetterci in piedi''.

Alfred sarebbe fiero di noi.

 

No, non mi basta.

 

Resilienza potrebbe per molti avere una traduzione diversa: anni luce dalla neurobiologia, è derivabile anche da un concetto filosofico, quello che Platone chiama “Thymoeldès”, che in greco significa “respiro”, ma anche “cuore”, un termine che rimanda all’anima, a quell’ambito che rende l’anima capace, adeguatamente allenata, di cogliere tutto ciò che è vero emozionalmente.

Secondo questa visione, sarà proprio l’emozionalità a legarsi con la parte razionale e a dirigerla, a renderla resiliente.

Questa visione è tradotta in un’immagine nel Fedro: una biga con due cavalli. L’auriga che guida la biga è la razionalità e i due cavalli rappresentano la passione e l’emozione. L’emozione è un cavallo bianco che comprende il linguaggio dell’auriga (l’anima razionale) ed è continuamente attiva nell’atto di moderare il cavallo nero simbolo invece delle passioni.

 

Thymoeldès è quindi forza d’animo, che con ardore media il conflitto del divenire del mondo e dei cambiamenti della vita, delle nostre vivide passioni e della calcolatrice razionalità.

 

Thymoeldès è resilienza. E indovinate Platone dove localizza l’origine della resilienza?

Nel cervello direte voi.

Nel cuore, dice Platone.

 

Il cuore è dimora metaforica del sentimento, inteso non come placido e rilassante atteggiamento ma come forza. 

Forza che ci permette di scegliere, senza farci vincere dall’eterna diatriba dei pro e dei contro, che ci permette di resistere al divenire, senza cadere nel difetto di identificarci come stranieri nella nostra stessa vita, o peggio come spettatori.

 

La forza d’animo, che è poi la forza del sentimento, ci difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di noi.  

 

E anche nell’urgenza paradossale della realtà di questi giorni che accomuna noi giovani medici, fare nostro il pensiero di Platone che si coniuga con le più recenti ricerche che dimostrano scientificamente l’essenza della resilienza, può forse darci uno spiraglio per rimanere aderenti alla nostra vita, alla nostra scelta, nonostante tutto.

E così in ogni sfida.

 

Non ha ancora smesso di piovere.

Eppure, c’è una luce che filtra tra le tende.

È un monito che nella sinfonia del ticchettio delle gocce sul davanzale fuori, suona cosi: ‘’se noi lasciamo la nostra luce splendere inconsciamente diamo alle altre persone il permesso di fare lo stesso, appena ci liberiamo dalla nostra paura, la nostra presenza automaticamente libera gli altri’’.

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