venerdì 2 febbraio 2024

All'improvviso, bianco

La prima volta a tu per tu con la sostanza bianca non te la scordi mai.

Quando “Dai su facciamo fare un po' a Capelli” e ti ritrovi catapultato sul trono mobile del primo operatore a chiedere gli strumenti da micro per tentare di affrontare un nemico infido e dai labili contorni.

Non te lo dimentichi facilmente.

Muscoli che si tendono come la corda di un violino prima di un’importante sonata.

Fiato corto come se stessi scalando quella vetta.

Cuore che batte all’impazzata: lo senti rimbombare nelle orecchie mentre il respiratore ritma con silenzioso rumore lo scandire del tempo.

 



Sono passate le canoniche 24 ore di risveglio protetto e forse riesco a realizzare.

Sono al mio necessario ritorno a casa per 48h di evasione, attraversando lo stivale al ritmo incessante della locomotiva e mi prendo del tempo per concretizzare questo.

 

Aiutare E. agendo direttamente e personalmente sulla causa di tutto.

Avevo capito che sarebbe stato tutto un po' diverso questa volta.

E’ il mio turno di reparto e sta a me accogliere E. e tutte le sue paure, mascherate da un viso che assume lo sguardo di sfida della sua età ma che cerca conforto nella sicurezza di mamma e papà che mostrano il loro amore con delicata vicinanza.

 

Che incredibile specie, i genitori!

Qui, dove ti confronti quotidianamente con malattie che durante medicina leggevi incuriosito sui libri mai pensando che potessero interessare un cucciolo d’uomo. Qui dove la malattia si traduce in resilienza, vedi volti, ascolti voci di mamme e papà che stanno dando tutti loro stessi per i loro virgulti. E’un impatto che forse non riesco a capire appieno, ma del quale rimango affascinato: quasi fosse una magia che riescono a perpetuare per la loro famiglia.

Giratevi indietro e guardate i vostri genitori, aprite la galleria sul telefono e cercate una foto con loro o chiamateli subito se siete lontano: dite loro grazie. A priori.

 

Ma torniamo a quell’incontro con E. 

Se non fosse stata per la musica, sarebbe stato un intervento come un altro. L’avrei vissuto si interessato ma ad un certo punto avrei abbandonato mentalmente per la stanchezza che talvolta soggiunge.

No, questa volta no.

Addirittura i Tokio Hotel e gli Evanescence. Sorrido nel trovare una breccia per poter comunicare con E. Da lì voli pindarici che toccano mondi lontani che ricordano la mia lontana adolescenza sino ad arrivare al più recente magico mondo degli ShadowHunters. Sapete, ho un rapporto particolare con loro: ho letto tutti i romanzi della serie recuperandoli nella biblioteca del mio paesello bergamasco. La particolarità è averli letti non a 14-15 anni come il mondo vorrebbe ma 7-8 anni dopo circa per sopravvivere alla mia vita da pendolare per l’università, quando fare medicina era tutto tranne che l’avventura che volevo in tutto e per tutto, quando cercare un angolo in cui scappare e rifugiarmi era ossigeno puro.

Era da tanto che non ritornavano nelle mie giornate. E quel biglietto di E. prima che io uscissi.

Mi aveva introdotto in un mood che non sperimentavo da tempo.

 

Non sempre è facile ricordarsi cosa significa la scelta che segna quotidianamente le nostre giornate, in quanto medici. Soprattutto medici specializzandi.

Chi come me sta vivendo questa fase della sua formazione sa cosa intendo.

Per chi dovrà viverla, niente spoiler.

Per chi non ha idea di cosa stia dicendo, ve la riassumo così: lo specializzando si dimentica di essere medico. Segretario, burocrate, infermiere, strumentista, postino, studente, tuttofare.

Alienazione.

Sconforto. 

 

Il treno scorre veloce e il crepuscolo si insinua con una luce fioca modulata da una nebbiolina leggera che si staglia sui cipressi toscani. E la discografia della mia adolescenza suona nelle mie orecchie isolandomi un po' da tutto: si, le solite canzoni e i soliti gruppi.

Inguaribile romantico? Noioso ascoltatore? In ogni caso si, perché si.

 

Avere la fortuna di dedicarsi al paziente per il motivo base per cui ci definiamo professionalmente parlando, è un’eccezione che quando capita illumina, scalda, rincuora.

Per cui sapevo che, per definizione, quello non sarebbe stato un caso come un altro, uno dei nomi che avrei aggiunto alla nota del telefono ‘miei interventi IV anno’.

 

Ah già, in tutto questo catapultato al penultimo anno di specializzazione. A quest’ora nel 2026 sarò specialista.

Rido a pensarci. Anzi sto ridendo proprio ora mentre faccio alzare il mio elegante vicino di treno e questo sorride a sua volta. Siamo strani noi esseri umani. Strani e meravigliosi.

 

L’intervento scorre nella sua confortante e regolare routine tecnica.

Gesti attenti e precisi. Ogni istante è importante.

Un elemento che apprezzo infinitamente quando si operano patati: la dolce attenzione a ogni particolare. Una dignità chirurgica che incornicerei ad ogni step.

Siamo a buon punto, si sta procedendo spediti. Chi opera ha una mappa mentale allucinante: districarsi quando ci si tuffa nel mare magnum sottocorticale dove la grigia lascia spazio alla bianca, dove la fusione tra eloquente e ancor più eloquente è questione di millimetri.

Millimetri. Vi rendete conto?!

Si certo, non a caso il neurochirurgo opera utilizzando il microscopio.

Si, ok.

Millimetri.

 

Forse alle medie quando dovevate fare disegno tecnico avevate una vaga consapevolezza delle misure. O così almeno era per me. 

Fino a ieri forse.

Quando con mano tremante ma mente ferma ho ballato un valzer tra pinza bipolare e forbice da micro per esplorare quei mondi profondi, sgusciando il male di E. risparmiando il delicatissimo involucro che ha nel nome una devozione quasi religiosa.

E dissecando cautamente la pia madre, completare così la resezione.

 

Nomi altisonanti che suonano come uno dei movimenti chirurgici più delicati ed eleganti mai visti. Tutto sempre con l’obiettivo di minimizzare il danno al contenuto, il più nobile di tutti.

Certo, le mie mani, la delicatezza e l’eleganza è un menage a trois che ancora non è ben definito. Ma quello che è successo ieri sera in quel quadrato di verde piastrellato, è stata come una rivelazione. 

 

Sarà spesso estraniante questa fase di formazione ma è piena di attimi che valgono tutto.

E credetemi. Sono tanti gli anni passati da quel settembre 2013, quando con un calzoncino poco consono, un accenno patetico di barba e la pelle bianco latte mi sono presentato timoroso del futuro a sostenere un test che avrebbe stravolto la mia vita.

Credetemi se, in questi anni, la pazienza è tutto tranne che la prima dote che imparerete a dominare e ad avere come la più valida e certa degli alleati. 

Credetemi anche se spesso la testa è fissa su quel motivetto che, sono certo, tanti avranno come abituale compagno di stanza: ossia quel ‘ma chi me l’ha fatto fare’ che pesantemente adombra le nostre giornate.



Credetemi perché poi capita quell’attimo in cui ti ritrovi a confrontarti con quel paziente ed uscirne arricchito. Perché sei parte più che attiva nel ridare una nuova chance a una vita che aveva intrapreso il più fastidioso dei percorsi ad ostacoli. Perché quando ti prenderai il tempo a suturare quella cute e deciderai di far mettere in sala quella musica, sorriderai anche solo perché sai che questa volta ci hai provato per davvero. Perché quando incrocerai lo sguardo di quei genitori, saprai che non dovrai indossare l’ennesima maschera che ti viene richiesta in questo gioco di ruoli ma potrai ricambiare con fermezza il coraggio che ti sarà derivato dalle ultime 9 ore trascorse proprio là.

Credetemi perché quell’attimo potrà dare un lampo di luce, ma sarà compito vostro trasformare un balzo improvviso in una continua fonte di calore. Certo, per me questo passaggio passa attraverso la condivisione con lei, lei che rischiara il mio quotidiano e prova con forza inesauribile a accendere lo stoppino che alimenta tutto quando in realtà è proprio lei il mio tutto senza la quale tutto avrebbe la tinta unica del non colore per eccellenza. 

Credetemi perché è una figata pazzesca.

 

Adesso la luce fuori dal finestrino ha lasciato spazio a ombre indistinte. Il mio vicino legge un vecchio e logoro romanzo. Io sto tornando a casa, anche se solo per poco ma torno nel suo abbraccio. Per poter far persistere questa luce bianca.

Sorrido.

domenica 2 luglio 2023

Sono stanco

Sono stanco.

Questa volta sarò poco instagrammabile, poco foriero di pensierini da “stampa su tela” da appendere al muro della propria cameretta e senza hashtag motivazionali in grado di impattare nelle tendenze social.

No, niente di tutto questo.

 

Prima di buttarmi in queste righe-confessione ho riaperto il mio famigerato blog: non scrivo dal primo novembre scorso. Che vergogna.

Ma soprattutto, che stupido.

Quante volte ho declamato a gran voce i poteri magici del mettersi davanti a uno schermo bianco e buttare giù i propri pensieri.

Vero, da quasi due anni ho la fortuna più unica che rara che quello schermo bianco che accoglie senza limitazioni, con dolcezza e amore, tutte le mie impetuose cascate di pensieri, ha un nome e un cognome e due occhi del color della terra bagnata dalla pioggia, con venature ambrate e una fossetta sulla guancia destra che mi fa impazzire.

Lei ha il potere magico di trasformare una giornata insapore in momenti dal gusto indimenticabile.

 

Avevo cominciato a buttar giù questi pensieri in settimana. Poi mi sono fermato.

Li ho ripresi ieri, sabato, alla conclusione delle mie cicliche due settimane ininterrotte di lavoro.

Le ho detto, mentre condividevamo la colazione, che adoro quel momento del sabato mattino in cui, con la pancia piena, mi appoggio al muro freddo della cucina e guardo fuori dalla finestra.

Abbiamo la fortuna di vivere in un appartamento al quinto piano e Dio solo sa quanto amo vivere così in alto dove la brezza mattutina è più fresca e i tetti rosso sbiadito lasciano quindi spazio alle tinte dell’infinito del cielo.

Adoro quel momento perché, anche se sotto scorre impetuosa la vita frenetica del mondo, è impagabile godermi il tempo per fermarmi un attimo, attimo che scavalca i limiti temporali e così, pensare.

 

Certo, pensare è pericoloso.

Pensare ti sfinisce.

Pensare è, però, un forte atto di ribellione. 

 

Cerchi di ribellarti ai giorni che scorrono in fotocopia, ribellarti a sensazioni fastidiose che si insinuano là nel profondo, ribellarti all’idea che ho sempre odiato del ‘farsi vivere’ della vita e non viverla appieno.


In quest’ottica però le energie sono un poco ridotte. Sono stanco.

E la cosa che più mi fa incazzare è che non ha contorni chiari ciò che mi fa vivere quest’ultimo periodo. O forse si ed ho solo paura di dirlo ad alta voce ed infatti lo sussurro delicatamente all’orecchio di lei che, pazientemente e con delicatezza, mi accoglie quotidianamente.

 

C’è chi potrebbe rispondermi con la solita massima “ma sì dai, non ti preoccupare, è normale sentirsi così dopo un po', è umano”.

Ma vi siete mai resi conto della tristezza e della pochezza di affidarsi a queste cosìtantodeclamatemassime? Come se tutti i membri della truppa del genere umano siano in realtà unificati a vivere le stesse gioie e gli stessi dolori, le stesse sfide e le stesse fatiche e quindi, per ciascun momento esista una formuletta magica in grado di dare la risposta che minimizza il problema e pone un punto, debole e insignificante a mio avviso, a quel momento.

Che schifo vivere di massime e frasi già dette da altri!

Questo non allevia la mia stanchezza. Ovvio.

Anzi, forse mi logora di più.

Non sono qui per dare risposte: non ne ho per me, chi sono per prendervi in giro e dispensarvi massime.

Appunto.

 

La vita in fondo capita, senza ragione, senza colpa, semplicemente capita.

E mi sembra di essere uno spettatore inerme che si lascia subire da ciò che accade.

Non ovunque, ma là dove vivo la maggior parte delle mie giornate.

Che stia scemando l’idillio dell’inizio? Che al terzo anno avanzato del mio percorso di specializzazione compaiono domande scomode alle quali non voglio o forse ho paura rispondere? Che alcuni momenti di un futuro incerto mi spaventino?

In ogni caso, sono stanco.

Il cammino del quotidiano là in quel posticino, viene seguito senza difficoltà la maggior parte del tempo: come il più freddo degli automi procedo, forse senza però davvero rendermene conto. Ecco però che ultimamente è sorto il perché e tutto sta evolvendo in una stanchezza colorata di stupore.

Difficile pensare di poter provare questi pensieri se leggessi il me di qualche anno fa, giustamente emozionato di fronte alla sua prima urgenza, alla sua prima craniotomia parasagittale, al primo approccio emotivo ad operare un cucciolo d’uomo..

Eppure, scontrarsi quotidianamente con la realtà, o meglio, con certe realtà e certe vite mi spegne un po'. Come posso essere davvero d’aiuto a chi ha veramente bisogno quando non riesco a esserlo per me stesso?

 

“E’ solo un lavoro, puoi anche viverlo meglio eh”; “Un po' meno peso dai, susu”.

Ah, lo sentite anche voi il puzzo nauseabondo delle solite laide massime?!

 

Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che mi ha sempre sottolineato il significato non indifferente di tutte le azioni che decidiamo di compiere e che, da bravi fans di un’epoca che fu, mi hanno sempre insegnato il valore ottenuto dal mix del carpe diem oraziano e del homo faber ipsius fortunae un po' più tardivo, storicamente parlando. Dal momento che sto vivendo ora, però, faccio fatica a fare appello anche alle risorse delle quali ho sempre avuto una buona riserva, risultato di momenti di vita impegnativi.

Ed è anche questo che, al netto totale, mi dà ulteriore rabbia.

Ma non riesco a reagire di violenza per la mia salvaguardia.

Perché sono stanco.

 

Ma è in quel posto lì che scemano le mie energie e quell’idillio a cui ho sempre fatto fede, mascherato da craniotomi e emorragie e idrocefali e fratture spinali e tanto altro, che si trasforma in una grigia e sfocata versione di sé.

 

E in tutto questo, l’unica certezza a cui mi appiglio è lei. Forse è egoistico. Anzi, senza forse: lo è sicuramente.

Ma avete presente quella persona nella vostra vita che vi fa sentire che esistete? Quella persona che sa cosa ti sta succedendo e cosa stai pensando, senza bisogno di dirlo?

Cadrò nell’ovvietà: potrete trovare o essere matchati nella specializzazione più incredibile che esista, potrete avere i migliori risultati agli esami…ma non sarà nulla se non avrete coraggio di guardarvi dentro e lasciarvi così salvare da chi vi ama per davvero.

Non ha senso vivere di maschere.

 

Al liceo non mi dispiaceva Pirandello.

 

Adoravo quando descriveva l’eterogeneità dell’uomo nella sua pochezza a scegliere di indossare una maschera diversa a seconda dell’occasione, non mostrando mai il vero sé, né al mondo ma soprattutto a se stesso per paura di non riconoscersi.

Io ho già commesso questo errore in passato, non poche volte. Da quasi due anni sono il fiero discepolo di un programma di disintossicazione da questo atteggiamento di falsità.

E, indipendentemente da ciò che sto vivendo ultimamente, questa è proprio la condotta vincente. Ovvio, da soli mica ci si arriva.

Io, al solito, ringrazio lei.

 

Sto deviando dal percorso tracciato qualche riga fa. La mia stanchezza che non ha nome forse si traduce nel rendersi conto dell’assenza della poesia nella realtà cruda di ogni giorno.

Certo, il mondo potrà fare anche a meno della poesia; ma io non sono il mondo.

Parlare con la moglie di un giovane adulto con una diagnosi di pochi mesi di vita per il tumore cerebrale più devastante, interfacciarsi con chi tuo coetaneo ha deciso di lanciarsi nel vuoto e non muoverà mai più le gambe, scambiare attimi con chi dovrà gestire il vecchio papà operato per un ematoma subdurale ma che deve occuparsi anche dei figli perché rimasto vedovo da poco, comunicare i dettagli di quell’approccio chirurgico accennando ai rischi tecnici per poi scoprire al risveglio che quello diventa il caso su 10mila ad avere avuto quella complicanza…

Dove può esistere qua la poesia?

Non permea sicuramente quei corridoi né quelle rettangolari aree piastrellate e fredde al piano -1.

 

Ma io ne ho bisogno.

Spasmodicamente.

 

E per questo, sapete, mi sentivo in colpa.

Anzi, anche tutt’ora, nonostante gli imperterriti e dolci tentativi di lei.

Come posso lamentarmi? Quando sono io che l’ho scelto! Non ho alcun diritto. Poesia, poesia.

Stai lavorando, Sergio. Come diremmo noi pratici e concreti bergamaschi: rampa fò da la crisi.

 

Si, vero. Ma non ci riesco.

E sono stanco. Tanto. 

 

Una cosa che non mi è mai successa in passato, nonostante i numerosi impegni e orari folli, è addormentarmi anche solo per poco nei pochi momenti liberi del pomeriggio. Ci credete che solo nell’ultima settimana, nei pomeriggi non estremamente impegnati in ospedale, ho dormito?!

E no, non è normale.

E no, non è perché dovevo riprendermi da chissà che tour de force lavorativo.

 

Valla a trovare tu la poesia in tutto questo.

Sicuramente lontano da quello che fino a poco tempo fa era produttore secondario di benessere nel mio quotidiano vivere.

 


Lei è poesia.

Lei me la garantisce.

 

Nel frattempo il mio sabato è evoluto dalla sedia in cucina, al divano, al letto dove ho vomitato questi ultimi pensieri.

Coraggioso tu che sei arrivato fin qua a leggermi. A sostenere il peso esistenzialista di uno che dovrebbe smetterla di farsi tutte queste paranoie, svegliarsi e andare avanti.

Vero, però ho sempre fatto così e ora non mi va più.

Non riesco più a sostenerlo.

 

Sono stanco e prima o poi un modo lo troverò.

Forse.

martedì 1 novembre 2022

Evolvere

Evoluzione è la traduzione dinamica di rivoluzione. È la possibile forza motrice che induce a ragionare su se stessi, su ciò e su chi ci circonda e, così facendo, a imporci di fermarsi per ripartire più sicuri di prima, più saldi e in un certo qual modo, anche più se stessi.

Evoluzione è vivere il tramonto di questo secondo anno di specializzazione in neurochirurgia con la consapevolezza che qualcosa sta prendendo sempre più piede nell’idea generale del mio pensiero di futuro, condito dall’evolversi quotidiano del necessario legame che mi sorregge imperituro senza dimenticare di come questo fornisca angoli di prospettiva sull’oggi che sanno di persistente fiducia nell’oggi così come nel domani.

 

Evolvere spaventa.

Evolvere crea disagio, perché annienta le pretese del presente sulla staticità di essere stabili in un posto, in un momento preciso.

Evolvere inventa possibilità: attimi che tolgono le basi della sicurezza ma che non sono tuttavia scevri dal garantire opzioni invitanti.

Evolvere pesa 720 grammi e copre una distanza di 2858 km in 15 giorni.

 

Con la mente volo e volteggio in quel viaggio che, fianco a fianco, ci ha permesso di svegliarci in panorami magici ad assaporare storie, leggende, natura, vite sconosciute. Quelle due settimane ad alternarci alla guida a spezzare il silenzio quasi religioso di sperduti villaggi normanni e bretoni per poter giungere, con occhi sognanti, alle nostre incredibili mete.

Viaggio a quei momenti, a quando incrociavamo lo sguardo, condividevamo il sorriso, ridevamo assieme e ci stringevamo forte nella brezza violenta di un oceano mai indomito e di città dai millenari scenari senza tempo. E quei giorni dal gusto ricercato delle specialità burrose del posto, non sono stati meri momenti di evasione ma concreti attimi di evoluzione.

Respiri, risate, chiacchiere, silenzi…

Il tutto a cornice di un sentimento che, prorompente come quelle cattedrali nel cielo, si imponeva sempre più statuario e fluido. A sottolineare come amare sia la congiunzione evolutiva perfetta per ciò che chiamiamo quotidiano e che svela continuamente il suo incantesimo nel rendere straordinario l’ordinario.

 

Perché è facile apprezzare quando si è anni luce dal fastidio delle sveglie all’alba e dai rientri a casa quando fuori il mondo dorme.

E’ proprio in quei momenti giornalieri, che ciò che l’evoluzione naturale di noi ha visto in quelle due settimane, ti permette di tradurre con una chiave di lettura preziosa ciò che altrimenti sarebbe solo motivo di abbandono e lamentele senza fine.

Io lo vivo così: l’evoluzione di noi è destino che si fa presente, è sutura a tenuta che unisce i pezzi, è mezzo per rivalutare tutto.

E ti permette di ricordarti ciò che fai, ciò che stai diventando.

Ti fa sentire giusto, ti spolvera di dosso paranoie e infiniti pensieri di non essere all’altezza, ti garantisce di tornare a respirare, non solo galleggiare inerme nella vastità del quotidiano ma a nuotare fieramente a pelo dell’acqua, con sicurezza e una nota di fiducia per ciò che sarà.

Quella delicata carezza che come la più vetusta e potente delle magie è in grado di sciogliere i nodi che ti tengono ancorato ad un terreno fangoso che ti trascina a picco con le tue incertezze e paure, permettendoti così di liberarti e volare.

Volare indomito.

Come quel pomeriggio in cui mi sono ritrovato in un micromondo dalle temperature tropicali.

Un clima obbligato per permettere a un microscopico cucciolo d’uomo di 720 grammi di resistere alle intemperie del mondo esterno che, sfortunatamente, necessitava del nostro intervento di meccaidraulici di cervelli. 

M. così fragile da non riuscire a resistere al trasferimento nella familiare sala a piastrelle verdi in evidenza, ma con la necessità di essere operata.

Per cui ecco, quella che prima era la culla riscaldata, l’ambiente più sicuro in cui provare a sostenere le difficoltà che la vita impietosa le aveva lanciato, ora si trasforma nel campo di battaglia più crudele e più arduo da superare e sostenere.

In men che non si dica, la strumentista con delicatezza ammanta di teli di verde acqua tinti la culla, lasciando scoperta la sola testolina che prima si era trasformata nella tela dello strutturato che seguivo: con un piccolo pennellino aveva tratteggiato i riferimenti anatomici di cui avremmo necessitato in questa fase, i limiti che avremmo sfruttato per condurre l’intervento chirurgico in sicurezza date le già molteplici situazioni che si stavano mettendo tra noi, M. e il buon esito della procedura.

Ed eccoci, lavati e sterili, adagiarci dolcemente sul capo di M.

 

Incidi, solleva, coagula, taglia.

Inserisci, fissa, alloggia, controlla.

Ricontrolla, coagula, sutura.

Medica.

 

C’è chi potrebbe minimizzare l’atto chirurgico in sé come semplice e tecnicamente non ricercato. C’è chi potrebbe minimizzare il significato di intervenire su un essere umano così fragile, intendendo ogni procedura come un accanimento sfrenato.

C’è chi forse ancora non ha capito di cosa stiamo parlando.

 

Evolversi al di sopra del sentire comune per lottare e concedere una chance a tutti, anche a chi aveva troppa fretta di respirare l’aria corrotta di questo mondo.

Evolversi a tal punto da individuare ogni singolo punto di cute come il prezioso atto di cura verso chi lotta con ogni fibra del suo microessere per poter un giorno, prendersi a sua volta cura dei propri cari.

Evolversi per poter individuare in ogni istante di questa delicata sezione delle neurocosechirurgiche l’attimo in grado di fornirti la forza che egoisticamente ricerchi per poter avanzare, giorno dopo giorno.

 

Ed è in questo connubio di sensazioni che derivano dal quotidiano e da quelle che sono le due dimensioni delle mie giornate che si trova il risultato perfetto dell’equazione, il cui esito vado ricercando costantemente.

È un percorso ad ostacoli, una staffetta in cui il totem presente ad ogni angolo è celebrazione della fragilità: credo sia normale avere paura di vivere tutto questo, è un'emozione che è giusto provare, perché siamo esseri umani, fragili e insicuri, ma per questo vivi. Ed è così che evolviamo nella miglior versione di noi stessi, solo se abbracciamo la fragilità che è sinonimo dell’essere umani. 

Ovvio, personalmente tutti gli sforzi, tutte le fatiche avrebbero difficile significato se non in un quadro di più ampio spettro che vede lei, tratteggiare con delicatezza i margini del giusto.

Le emozioni che vivo tramite lei sono il linguaggio attraverso cui si comunica con sincerità, mettendosi a nudo, senza timore di mostrarsi fragili e indifesi così come quei minuscoli esseri che tanto stanno rubandomi il cuore. Perché la fragilità è la nostra forza, in un mondo trascinato dalla ragione verso la competizione estrema, ci garantisce di evolvere al di là di confini imposti per imporre invece noi stessi, come il respiro che delicato e flebile sostiene impavido la sostanza di una vita in meraviglioso divenire.

sabato 30 aprile 2022

Crescere

Crescere è l’unica testimonianza di vita.

La felicità non è nè la virtù nè il piacere nè questa cosa o quell’altra ma semplicemente crescita, siamo felici quando stiamo crescendo.

Modulare le proprie giornate in base allo scorrere impetuoso e inafferabile del tempo.

Definire le proprie ore nell’evolvere di vite che intrecciandosi, creano un arazzo complicato e bellissimo.

 

Crescere.

 

E imbattersi in inciampi che possono rallentare lo sviluppo del proprio domani, come una macchia che fastidiosa altera i fotogrammi su una polverosa pellicola di un film di tempi passati.

E riuscire, nonostante questi temporanei rallentamenti, ad apprezzare l’esistenza nel suo significato più profondo: così da non vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Vivere invece, profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.

Ai suoi termini più essenziali così da ammirarne i contorni più precisi e delicati.

 

Crescere.

 

Ed è così che, in uno slancio di personale confessione, il vortice dei giorni del mio ultimo periodo mi induce a battere sui tasti del mio vecchio pc per ritrovare la direzione dei miei giorni che qualcuno, dolcemente e amorevolmente, già riesce quotidianamente a ricordarmi.

 

Da dove partire?

Dall’enorme meningioma falcino asportato come secondo operatore dopo una brividante craniotomia sul seno sagittale superiore? Da weekend di turno caratterizzati da quasi 48h di urgenze in sala operatoria? O forse dall’assurdo caso d’urgenza neurochirurgica di un profugo ucraino della tenera età di 17 mesi? Magari dalla scomparsa di una delle canute colonne portanti del fragile edificio che chiamo vita? O di quando a 17 minuti dallo scoccare del mio 28esimo compleanno sono stato chiamato per una di quelle urgenze da “opera veloce o muore il paziente”?

 

Non esiste un ordine di importanza quando si tratta di un coacervo di episodi, di sensazioni, di faccende umane che intersecandosi, ridipingono la rosa dei venti delineando quello che è un nuovo ma insostituibile riferimento.

Oggi, ora più che mai, il quinto punto cardinale è l’empatia.



È comunione affettiva quando la sera prima del giorno X, con lo strutturato primo operatore, ti interfacci con la famiglia della paziente che opererai per quella maledetta macchia grigiastra che non la fa più dormire e non le permette di prendere in braccio i nipotini. Una concordia di sentimenti che si prolunga in quella fredda azzurra sala piastrellata, teatro dell’opera più maestosa e delicata che mi ha visto come inaspettato primo violino nel violare, con le mie mani tremanti, quello che è il recondito santuario che ci rende umani. Un’evoluzione empatica tradotta al risveglio con l’incrocio di sguardi, carichi di riconoscenza e sincera gratitudine; tradotti in un recupero di energie di incredibile sostanza che le hanno permesso di riabbracciare con forza i suoi cari.

 



È partecipazione emotiva quando al termine di un infinito turno di weekend, vieni risvegliato dal sopore delle 19.30 dalla voce tonante del tuo strutturato: “Svegliati, c’è un bambino ucraino in PS  da operare!” E ti ritrovi a stropicciarti con vigore gli occhi, riassettarti alla bella e meglio la divisa, a volare giù da quelle scale e ritrovarti in quella furibonda Babele di vite nota ai più come Pronto Soccorso, e bloccarti nello sguardo implorante di un papà spaventato per i gravi sintomi del biondissimo figlioletto che, fuggito in fretta e furia dalle bombe del cielo, è capitato in un’ignota parte di mondo ad essere teneramente appoggiato su un tavolo operatorio per avere modo di vedere un nuovo giorno luminoso. E la serata evolve e mi ritrovo a fianco dello strutturato di notte ad aprire un bambino e a trovare il misfatto e a risolverlo. E nella notte incalzante, da solo, a suturare con delicato rispetto quell’incisione parietale destra, segno di un giorno da dimenticare, immagine di un frammento di vita che ha il coraggio di evolvere e di imporsi nel caos che permea l’oggi.

 

E ti ritrovi un giovedì di un timido inizio primaverile, mentre ti prepari ad assistere ad un intervento su un altro cucciolo d’uomo, un piccolino che ne ha già vissute troppe per i suoi 4 mesi, a ricevere quella notizia che non avresti voluto ammettere. La scomparsa di una figura che nella sua saggia presenza e nella sua imponente certezza in ideali trasmessi con l’esempio, mi ha fornito gli strumenti che anno dopo anno si sono affinati nella certezza per affrontare qualsiasi sfida, qualsivoglia ostacolo che la vita, talvolta furbescamente, lanciava improvvisamente.

C’è chi vede nei nonni, accessori da non richiedere un termine che ne specifichi la perdita, come se dei nonni non si sia né orfani né vedovi: come se il tempo vorticoso dei nostri giorni creati con lo stampino di un fabbro costruttore, imponesse per moto naturale di lasciarli lungo la strada così come per distrazione, lungo la strada, si abbandonano gli ombrelli.

Ma io mi ricordo la sera di quel 16 ottobre di 3 anni fa, al termine di una pazza giornata che sanciva la chiusura di un capitolo lungo 6 anni e l’inizio di un altro durevole una vita intera. Mi ricordo di quando ho varcato la soglia del tuo piccolo mondo e tu, con quell’occhio lucido e stanco, hai incrociato il mio sguardo e subito hai capito: ‘’ Arda lè ol me dutùr” (guarda lì, il mio dottore). E di tutte quelle volte che, alzando i decibel per poterci capire ridendo perché non sempre mi veniva il termine giusto nel tuo arcaico ed eterno idioma, ti raccontavo visto il tuo passato in officina, che foravo la testa alla gente con un trapano per curarla e tu ridevi “ pff, col me laurà ga rie po' me” (con il mio lavoro-esperienza, ci riuscirei anche io).

Come potrei anche solo pensare di abbandonarti sul ciglio di una scialba strada senza nome che ha percorso la mia vita. Come potrei anche solo immaginare di non ricordarti ogni volta che sono chiamato ad esercitare la mia manualità in quella tanto amata sala operatoria, dopo tutte quelle volte che al banco di lavoro della tua buia cantina mi facevi provare ad aggiustare ingranaggi o arsi dal sole estivo, curavamo delicatamente i germogli del tuo fazzoletto di terra.

Semplici parole per non lasciarti andare.

O forse si.

Per lasciarti andare ma garantendomi il modo di tenerti sempre con me.

Nonno.

La vita è crescita, anche quando si traduce nel ricordo di chi ti ha dato tanto, nel silenzio di un gesto, nella delicatezza di uno sguardo.

 


Crescere.

 

E ci ritroviamo con un salto temporale di poco più di 30 giorni all’altra sera.

Reperibilità la notte del compleanno. Ma sì, è da un po' che non ci sono urgenze notturne..vuoi mettere che proprio stanotte..

23:43. “Sergio, sottodurale acuto, GCS 6, anisocorico maggiore per destra. Lo stanno intubando in PS. Ti aspetto in sala.”

Respiro, mi sciacquo la faccia, un goccio di caffè che è solo da scaldare, la moka è sempre pronta e piena in casa nostra.

Volo in ospedale, mi cambio, cuffietta regalata da lei con i segni della Terra di Mezzo stampati come anatemi per scongiurare le scorribande del Male.

Preparo il necessario, arriva il paziente con lo strutturato. Rasatura, posizionamento, disegno la linea mediana e quella che sarà l’incisione frontotemporoparietale destra che ci permetterà l’accesso là dentro, proprio là.

Ci laviamo in silenzio. Un silenzio carico di angoscia mista a tensione e ferrea determinazione, mentre di là bip irregolari ci avvisano della triade di Cushing che impetuosamente si avvicina.

Coperti dai nostri manti sterili, oso mettermi nella posizione da primo operatore. Incrocio lo sguardo del mio strutturato, non una parola ma due occhi che mi confermano: “tocca a te, sai come fare!”.

 

Bisturi.

Raney. 

Bipolare.

Forbice.

Ribalto il lembo miocutaneo one-layer e lo stabilizzo con due ami.

Una frattura lineare si evince nel mezzo della porzione di cranio esposta, una linea che spezza la continuità come quel momento, un’incisura a sé stante nel tempo di quella notte.

Trapano. Due fori craniotomici, rapidi.

Craniotomo. Mano sempre un po' tremante in questa fase: se non appoggi e governi bene lo strumento potresti creare un bel po' di danni al parenchima sottostante. Creo la mia strada con un dissettore: piede sinistro sul pedale, mano destra sul craniotomo. 

Si parte. E in men che non si dica mi ritrovo con lo scollatore a ribaltare l’opercolo.

Si, non mi ricordo più come si respira.

Ma forse le cose progrediscono sufficientemente bene.

La dura madre sottostante è integra ad eccezione della porzione corrispondente alla rima di frattura ossea.

Pinze da dura, forbice.

Apro la dura a stella, ribalto i margini ed eccolo lì: l’enorme e spessa falda di ematoma che continua a comprimere il parenchima cerebrale, inducendo quella sofferenza diffusa. 

Lavo e aspiro e asporto con dissettore.

 

Secondi? Minuti?

Chi può dirlo. Chi ha avuto il tempo di contarli.

Coagulo qualche vaso corticale che getta.

Il parenchima è deteso, pulsa. I bip ora mi piacciono un po' di più. E il mio centro pneumotassico si ricorda di avvisarmi che si, posso tornare a una frequenza respiratoria umana.

 

Incrocio lo sguardo dello strutturato. Sorride. Io pure.

Buon compleanno a me.

 

Crescere forse è proprio questo. Procurarsi qualcosa che ti regali un po' di poesia, illusioni sparse e qualche intensa sensazione qua e là, ché la poesia costa poco, le illusioni aiutano a vivere e quelle sensazioni lì fanno bene al cuore.

E se hai la fortuna di condividere tutto questo.

Beh, allora hai trovato proprio l’Eldorado che si nasconde ai più.

Hai scovato il senso più vero di tutto: crescere, amando.

domenica 20 febbraio 2022

Tra dieci anni

E quindi tra dieci anni?

Ritrovarsi con gli amici di sempre mentre sorseggi un amaro ghiacciato e ti culli dei ricordi di una vita lontana, improvvisamente essere circondati da neo diciottenni che festeggiano l’inizio di un capitolo affascinante quanto misterioso della propria vita, ti obbliga a fermarti.

Ti obbliga a chiudere gli occhi e sforzarti di immaginare quello che verrà.

“Sicuramente io voglio esplorare l’Estremo Oriente – Ah beh io sicuro il Coast to Coast e una nuova casa con un cane di grossa taglia – Beh, io non voglio abbandonare né il mio progetto musicale né quello culturale e farli crescere ancora...”

 

Non si tratta di uno sforzo sovrumano in realtà: ombre un po' indistinte che si stagliano tuttavia su uno sfondo ben chiaro che assume le tinte del meraviglioso presente.

Un oggi tratteggiato dalle linee sicure dell’asettico regno dei craniotomi e delle pinze bipolari, dalle definizioni in bianco e nero di cervelli in difficoltà, dalla dinamicità di gesti sicuri e salvavita esploranti le maestosità di quella massa gelatinosa portatrice dei più reconditi misteri dell’essere.

I giorni che si susseguono indistintamente mi permettono di focalizzare l’attenzione su circostanze fugaci che categorizzano il mio divenire e che voglio si mantengano tali e quali, anche fra dieci anni.

 

Da un mese ho iniziato il mio secondo anno come specializzando in neurochirurgia.

E passano le ore in sala operatoria e questa diventa sempre più affascinante ed entusiasmante, avvolta dal caso, dall’ansia mista al mistero. Meno scienza, meno gaia di quanto si pensi, più umana. Un’umana troppo umana scienza.

Perché ritrovarsi nelle 48 ore di turno del weekend a gestire con lo strutturato di turno, un’emergenza dietro l’altra senza avere il tempo fisico di bere un goccio d’acqua.

Perché ritrovarsi ad eseguire da solo un intervento di evacuazione di un ematoma in una paziente che potrebbe essere la tua dolce nonnina.

Perché assistere da secondo operatore ad interventi chirurgici che sfruttano vie anatomiche impensabili per asportare i maledetti -omi senza lasciar traccia di sé né comportare così complicanze problematiche.

Perché ritrovarsi da un giorno all’altro ad essere tu quello che cerca di insegnare il poco che sai ai nuovi colleghi cercando di ricordare loro l’importanza di mantenersi umani, nonostante tutto.

 

Perché tutto questo è dannatamente incredibile, un meraviglioso e colorato arazzo che si completa filo dopo filo con i fermi punti di sutura che scandiscono le mie giornate.

 

Il tenace freddo di un sabato sera invernale si inserisce tra i sogni di quattro vecchi amici.

Ma non interrompe il flusso di sogni di chi già ha visto la propria vita evolvere e prendere delle pieghe inaspettate e meravigliosamente proprie.

Pieghe nel tempo della quotidianità, che assumono i connotati della necessità di mantenersi saldi nelle proprie certezze.

Certezze che, personalmente, fanno rima con l’azzurro di quella sala, teatro di mille avventure cariche di tensione e inaspettata gratificazione, oltre che alla luce del sorriso di chi mi aspetta a casa con dolce tenerezza per stringermi in un abbraccio che sa di infinito.

 

E quindi tra dieci anni?

 

Non cambierei una virgola di ciò che sto vivendo appieno, forse condito da un sottofondo fonemico differente e pertanto da un quadretto culturale discrepante dall’attuale. Ma, inevitabilmente, con il medesimo insistente entusiasmo che mi tiene incollato un sorriso da ebete nonostante le innumerevoli ore passate in piedi, scomodo, in tensione, ad aiutare a salvare una vita.

 

L’alcol ghiacciato scende e scalda improvvisamente.

Le voci di chi è cresciuto con te si allontanano.

Gli occhi si chiudono.

Il delicato e intricato circuito di Papez riporta alla luce ciò che è stato, ciò che mi ha permesso di essere qui, ad avere la fortuna di pensare a cosa potrebbe essere il futuro.

 

E non si può non sorridere se pensi a quell’estate in cui ho dovuto ripetere cinque volte l’esame di fisiologia. A quella prima volta in un reparto a decriptare un ECG. A quelle lezioni infinite e alle sessioni d’esame che scandivano i miei anni mentre, invidioso, osservavo inerme il mondo che palpitava fedele al suo tempo scandito da tante vite che arrivavano a sfiorarsi per un attimo. A quel casuale tirocinio estivo a sostituire organi in una chirurgia dei Trapianti a dir poco all’avanguardia che mi avrebbe fatto cambiare tutto. E ritrovare me stesso. A quel timore reverenziale ad attraversare le porte del reparto di Neurochirurgia da studentello spaventato. A quel primo incontro ravvicinato con un cervello. E la tesi e la pergamena e la corona d’alloro. E la pandemia. E il primo lavoro da medico in Guardia Medica in un territorio, il mio, martoriato da un virus invisibile, inafferrabile, incontenibile. E il primo farmaco prescritto e somministrato. E i primi pazienti. La fiducia, incredibilmente sincera, restituita da un paio d’occhi in cerca di aiuto e rassicurazione. E gli altri impieghi da giovane medico terrorizzato, nelle mie montagne. 

Il test di specializzazione. E l’attesa snervante, e poi la conferma, e l’incredulità conseguente. E il trasloco. E la nuova vita. Dalla prima guardia da solo in reparto alla mia prima DVE. A un nuovo amore. Al mio primo adenoma ipofisario da secondo operatore ai numerosi ematomi sottodurali acuti. All’esame di passaggio. Alle 48h di weekend scandite da tragedie umane. Al sottodurale cronico bilaterale in solitaria di venerdì. 

A quell’amaro servito nei dedali della mia vecchia città con amici lontani anni luce dal tuo mondo, ma mai così vicini alla tua vita.

 

E quindi tra dieci anni?


Può spaventare fermarsi a pensare. 

Può paralizzare riconoscere che le variabili per la definizione di futuro, sono tutt’altro che ben chiare.

Non nascondiamoci.

Ma è forse per tutto questo che, fantasticare sul proprio futuro, ha ancora un valore più importante. Quello delle incalcolabili possibilità, del fatto che tutto è ancora modificabile, che ogni giorno inizia con una pagina da poter scrivere e cancellare innumerevoli volte.

Se penso alle sensazioni di distacco completo dal trascorrere del tempo quando mi ritrovo catapultato in quella stanza piastrellata e gelida, non penso di voler provare altro per il resto della mia vita. Che sia per la soddisfazione, finalmente, di riuscire ad orientarmi meglio quando ci si addentra nella regione sellare attraverso le intricate vie endoscopiche; che sia per la mano tremante nell’apporre i miei primi punti di sutura con quel filo sottile su quel sottile strato di dura madre.

Tutto vibra alle stesse frequenze dell’infinito che possiamo riscontrare in ciò che, in ciascuno di noi, ci rende vivi.

domenica 29 agosto 2021

Cascata

Se si avesse la fortuna di interrompere lo scorrere del tempo.

Se fossimo dotati del coraggio di bloccare in un’istantanea quel frangente di momento.

Se riuscissimo a cristallizzare quel dinamico Pánta rheî in un solido ricordo cui attingere nelle ore di sconforto.

 

Allora forse il disegno riuscirebbe ad acquisire una sua personale e unica fisionomia.

 

Ma una vita di se è difficile da tradurre in significato.

Il susseguirsi di se in realtà riesce, tante volte, a diventare tangibile solo in una reazione a catena che con violenza e forza primigenia ti scaraventa al suolo.

Senza mezze misure.

Senza tanti fronzoli.

Con ardore ti travolge, ti inghiotte, ma allo stesso tempo è capace di filtrare la luce fioca del giorno in un tripudio esaltante di colori vividi.

 

È come una cascata.

Un terribile e meraviglioso gioco di spruzzi e di schiuma e di fragore, che ti trascina in un flusso trasparente che vibra tra i muri piastrellati di una sala operatoria, tra gli occhi incredibilmente svegli del personale di sala in orari improponibili, tra mani guantate e veloci che cercano di salvare una vita, tra un delicato ma resistente punto di sutura sulla dura madre e un vigoroso craniotomo chiamato ad aprire una breccia per quella che è l’ultima chance…

 

Così sono state le mie ultime tre settimane di rientro dalle ferie estive.

Come una cascata.

 

Una dinamicità quasi violenta che mi ha risvegliato da un torpore di salsedine, richiamandomi a numerose prime volte.

La mia prima DVE.

La mia prima craniotomia.

I miei primi sottodurali acuti.

 

In queste settimane ho assaporato con occhi innamorati ogni singola prima volta: era come se il mondo avesse improvvisamente smesso di girare, come se la gente intorno a me fosse scomparsa, tutto dimenticato. 

Come se quella chiamata alle 21.35 di 14 secondi della vigilia di ferragosto, scandita da “forza vieni che il pz dell’aneurisma di oggi è in idrocefalo e devi mettere la dve” e dal mio tentennante “si, arrivo” mi avesse travolto a tal punto da non rendermi conto dell’iperattivazione del mio sistema simpatico. 

Una cascata tale di sensazioni da compromettere, ad oggi, il ricordo vivido degli istanti prima di rivolgermi alla strumentista.

 

Bisturi.

 

E seguire quella linea tracciata a pennarello in fretta e furia secondo i dettami stabiliti dalla craniometria, e scolla il periostio e prendi il craniotomo e schiaccia il pedale e rimani perpendicolare al tavolato osseo e spingi e spingi.

E arrivare alla dura madre, con delicatezza aprirsi la strada e prendere il catetere e spingerlo per quei 6-7 cm nel parenchima cerebrale. Quasi alla cieca, quasi alla disperazione, sperando, una volta tolta la guida metallica, di veder zampillare il liquor… ed eccolo lì gorgogliare allegro.

 

Come una cascata.


 

E la scenografia rapidamente cambia integralmente e rimane la stessa a distanza di pochi giorni.

Tolta la componente adrenalinica dell’urgenza, ritrovarmi al posto d’onore, quello del primo operatore a procedere per la primissima volta a operare da primo dall’incisione cutanea fino all’apertura durale per un intervento di asportazione di lesione cerebrale.

E se l’adrenalina non scorreva a fiumi tra i componenti della sala, era solo perché era tutta concentrata nelle mie mani che quasi tremanti si apprestavano a fare la mia prima incisione cutanea curvilinea frontotemporale.

Scolla i tessuti sottocutanei, disseca, coagula, incidi, esponi, ribalta, lava. 

Ti ritrovi la porzione di cranio lì davanti, lucida, riflettente quelle luci artificiali che provano a far filtrare un po' di calore.

Controlla sul neuronavigatore, non vuoi ledere il seno sagittale superiore la prima volta che fai un foro craniotomico su un intervento del genere.

Perpendicolare. Premi. Tieniti forte. Tre fori. 

 

Respira. O forse no, rimani in apnea. Non è finita.

 

Cambia strumento, è nuovo. Più fine, molto più delicato. Devi unire i fori così da asportare il lembo osseo e accedere al parenchima sottostante. Con calma ma con forza. 

Agisci. Sei sul parenchima.

Un turbinio di eventi che hanno azzerato il contorno, capaci di creare un’eco devastante e un urlo micidiale nel religioso silenzio di una sala operatoria di neurochirurgia.

 

Come una cascata.

 

E torniamo all’ora del crepuscolo.

Quando il mondo cerca pian piano di calare il sipario sulla giornata che è stata, ecco che un trauma cranico è capace di interrompere il regolare fluire delle ore e anzi catapultarti.

Come se il fragore generato dell’anestesista che urla ordini per tenere la PA a valori umani, dalla concitazione del neuroradiologo a interpretare quelle immagini della scala dei bianchi e grigi a monitor e dalla calma quasi serafica dello strutturato a scandire gli attimi come il migliore dei direttori d’orchestra, potesse in realtà spingerti lì, sul bordo di un abisso.

Con la tentazione quasi di cadere se non fosse per quella voce “forza, tocca a noi”.

E non una ma ben due sere, a distanza di pochi soli l’una dall’altra, sono state dettagliate da questo coacervo frenetico di movimenti, da quella babele di voci silenziate dal bip rallentato in sala operatoria.

E quella sera in tre ad aiutarci per evitare che quel parenchima cerebrale non erniasse dai bordi della craniotomia, fino a quell’altra notte che con pacata e delicata tecnica aiutavo a creare uno squarcio nella vita di qualcuno per permettergli di riacquisire progressivamente un’isocoria che per noi fa rima con “ok, puoi ricordarti di respirare. Ora”.

E sono quegli sguardi di timido sollievo con chi ti ha assistito, mentre richiudi delicatamente, che ti fa sentire parte di un qualcosa che non si spiega a parole, perché sei riuscito a regalare una chance di vita. Un sollievo che si infrange con violenza al suolo come la più impetuosa delle cascate, quando assisti al colloquio con chi amava quel qualcuno, quando le voci sono rotte dall’emozione di partecipazione a quello che forse ci rende più umani. Il dolore.

 

Come una cascata.

 

Ed è col trascorrere dei giorni, quando questi si quietano in una placida e regolare quotidianità in reparto, che quelle ore che sembravano così interminabili quanto fugaci, sembrano tanto lontane e tanto sfocate.

Quasi come se fossero un sogno, un tratto dalle tinte oniriche in cui una fragorosa cascata si è portata via tutte le immagini e le parole che ho sognato, lasciandomi solo la sensazione di essere stato, per qualche attimo, in quel flusso.

 


Ma ecco che subito vieni smentito.

E quel boato intenso in realtà ritorna vivido alla mente grazie alle parole di chi ti ha supportato in ogni istante, agli sguardi di chi vuole sapere, alle immagini e ai dati clinici che impietosi non ammettono appelli.

 

Ma come ogni prima volta non potrà mai più essere rivissuta dato l’incessante mutamento del tempo, dato il perpetuo divenire che armonicamente regola il tutto, così quel susseguirsi di sensazioni vere, di gesti spontanei, di mani che aprono santuari inviolabili, di dita che stringono vincoli di seta, mi ritorneranno alla memoria con violenza ogni qual volta si ripresenterà quell’evento, scaraventandomi ancora una volta, in quello che pian piano, sta diventando, il mio posto nel mondo.

 

Come una cascata.

domenica 4 luglio 2021

Apnea


Pare che nell’aprile 2021 si sia registrato il nuovo record mondiale di apnea: 24 minuti e 33 secondi, impresa riuscita ad un esperto sommozzatore croato.

Se fosse venuto in sala operatoria l’altro giorno, sono certo che avrebbe infranto il suo stesso primato.

 

Esagerato dite voi. 

Incredibilmente vero, vi assicuro io.

 

E questa volta non è stato trattenere il respiro, assistendo in maniera quasi inerte al procedere dell’intervento chirurgico.

Questa volta ha implicato un’apnea soggettiva per un ruolo di coprotagonista in una procedura delicata che aveva come scopo quello di ripristinare ciò che noi spesso diamo per scontato: alzarsi da un piano e camminare.

Un’operazione che si poneva fin da subito come una vera e propria sfida e che, per la solita congiunzione astrale mossa dal caso, è capitata nel giorno in cui io ero di turno come specializzando di sala operatoria. Questo implica, per i non addetti ai lavori, che ad operare eravamo io e lo strutturato di guardia. 

Ripeto: lo strutturato di guardia ed io.

Soli.

Io e lui, lui ed io.

 

Ok, credo di aver reso l’idea. Perdonatemi ma quando lo scrivo, si solidifica nella mia mente, ricordandomi che è stato tutto vero.

Perché sapete, tante volte la verità gioca a nascondino e non si concretizza senza che siamo noi a ‘fare tana’ e ricordarci di trasformarla in realtà.

 

“Ma non era mica la prima volta che scendevi in sala! Hai già operato con uno strutturato no? Quante storie per un intervento! Monotonia portami via…”

 

Se avete pensato a una di queste frasi, ve lo concedo.

Non mi sono spiegato sufficientemente bene.

L’intervento chirurgico in questione implicava, nel suo tempo centrale (ossia dopo la fase di apertura quando si è esposto il problema da risolvere), l’utilizzo del microscopio operatorio.

L’arnese che più rende questa, la chirurgia più fine e delicata in assoluto.

Il marchingegno in grado di rendere visibile l’infinitamente piccolo, di trasformare un dettaglio in un delicato problema da risolvere, da coagulare, da asportare.

 

Immaginatevi, per chi di voi non l’avesse mai visto, un microscopio montato su un braccio movibile e con almeno due paia di oculari in cui gli operatori si affacciano per poter guardare laggiù, attraverso la finestra dell’ingrandimento, verso il focus della procedura.

E vabbè, come se negli anni di università non avessi mai guardato in un paio di oculari di un microscopio: cosa vuoi che sia?

 

Vero, ma…c’è sempre un ma che rende questa disciplina spaventosamente affascinante.

Dovete pensare, non solo di passare tre quarti dell’intervento attaccati a queste due protuberanze ottiche senza permettervi di distogliere lo sguardo e rischiare di perdere il focus, ma soprattutto di utilizzare strumenti fini e delicati da introdurre in uno spazio di manovra di pochi centimetri che ingranditi, sembrano sì delle vallate, ma che in realtà sono minuscoli pertugi dove lavorare.

Ah già, e in tutto questo ricordatevi che se si sceglie di utilizzare il microscopio è perché ci troviamo nella necessità di intervenire direttamente o sul parenchima cerebrale o sul midollo spinale e le radici nervose. 

Ora, ritornate qualche riga più su, rileggete il perché dell’intervento e capirete dove eravamo e perché ero così leggermente agitato e sudato.

 

‘’Aspira di qui, certo c’è il midollo lì, non vuoi tranciarlo e creare un bel danno, vero Sergio?’’

 

Ok bene.

Queste sono state le parole che mi hanno dato il benvenuto.

 

Un benvenuto che sapeva di fuoco, che sapeva di iniziazione verso una pratica misteriosa.

Come se ‘muovi di lì, traziona di là, aspira ma non troppo’ fossero le parole in codice per introdurmi a dei segreti occulti ai più.

 

Tra delicati goffi tentativi di procedere nell’intervento, la costante era una.

Apnea. 

 

Dal greco: privazione, mancanza di respiro.

E no, non era involontaria.

Era necessaria.

 

Come se un respiro di troppo, o troppo lungo potesse in realtà compromettere l’equilibrio del focus al microscopio, o alterare la difficile posizione che avevo assunto con gli strumenti all’interno del sacco durale per evitare di danneggiare le strutture nervose che correvano di lì a pochi millimetri.

Ecco così: un’apnea misurabile in decimi di centrimetro.

Non come quelle che troverete sui libri dei guinnes dei primati, nulla a che vedere con le nuotate verso le profondità degli abissi con un sol respiro.

Qui lo sforzo meccanico si concretizzava in uno spazio incredibilmente minuto. Dove il benchè minimo movimento brusco o anche in parte spostato, avrebbe potuto creare danni irrecuperabili.

 

Forse dovrei andare a lezione da qualche sommozzatore, perché credo che questo stato di privazione d’aria andrà a braccetto con questo tipo di interventi, sarà il comune denominatore per tutte quelle volte che mi avvicinerò timoroso e con reverenza a quello strumento, creatore di portali verso un mondo infinitesimo.

 

C’è chi dice che, a differenza del sub che si immerge per guardarsi intorno, l’apneista lo fa per guardarsi dentro.

Credo che verità più assoluta non esista: anche se non circondato da coralli o fauna oceanica, la mia apnea non è risultata come una fase statica quanto piuttosto come un luogo, un corridoio vero e proprio, un mezzo di passaggio per accedere a un altrove.

 

Chi di noi non l’ha sperimentato.

Il contesto in cui vivere la propria apnea può assumere qualsiasi connotato. 

Per me è stato quell’anonimo giorno, al microscopio operatorio: è stato quell’interminabile procedere di minuti che si circondava dall’incedere dei bip ai monitor, dai colori di un midollo compresso che pian piano riacquistava la sua naturalezza, dal risveglio della paziente con il carico emotivo straripante, terrorizzato da come sarebbe stata la sua clinica nel post-operatorio, dal movimento in autonomia di quegli arti dapprima compromessi e ora sulla via della ripresa funzionale.

 

Un intervento chirurgico, anzi no, neurochirurgico, può regalarti tutto questo.

Ha il potere di stringerti in una morsa nella quale boccheggi, fatichi a riprendere un ritmo eupnoico; ma ha altresì modo la facoltà di indurti in quello stato di trance che, isolandoti da tutto il contorno, ti stimola a ripensarti, a interrogarti.

Quasi come se quell’apnea al sapore asettico di sala operatoria ti ricordasse che è necessario conquistarsi una vita fatta a propria misura e profondità.

 

Non puoi dimenticarti di respirare, ma puoi dimenticarti di respirare rumorosamente così da rimanere ancora una volta affascinato dal logico incedere di un dissettore e un aspiratore, abili strumenti per ripristinare l’equilibrio.

Rimanere ammaliati in un balletto senza fine tra un’incisione e un punto di seta 4.0 

Costantemente.

 

Il sacco durale è stato richiuso con punti staccati. Una PEEP ha escluso perdite liquorali dalla sutura. Posso chiudere per strati.

Arrivo alla cute, ultimo punto, ultimo sforzo prima di riemergere.

Respiro.

 

Almeno fino alla prossima puntata in apnea.