sabato 30 aprile 2022

Crescere

Crescere è l’unica testimonianza di vita.

La felicità non è nè la virtù nè il piacere nè questa cosa o quell’altra ma semplicemente crescita, siamo felici quando stiamo crescendo.

Modulare le proprie giornate in base allo scorrere impetuoso e inafferabile del tempo.

Definire le proprie ore nell’evolvere di vite che intrecciandosi, creano un arazzo complicato e bellissimo.

 

Crescere.

 

E imbattersi in inciampi che possono rallentare lo sviluppo del proprio domani, come una macchia che fastidiosa altera i fotogrammi su una polverosa pellicola di un film di tempi passati.

E riuscire, nonostante questi temporanei rallentamenti, ad apprezzare l’esistenza nel suo significato più profondo: così da non vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Vivere invece, profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.

Ai suoi termini più essenziali così da ammirarne i contorni più precisi e delicati.

 

Crescere.

 

Ed è così che, in uno slancio di personale confessione, il vortice dei giorni del mio ultimo periodo mi induce a battere sui tasti del mio vecchio pc per ritrovare la direzione dei miei giorni che qualcuno, dolcemente e amorevolmente, già riesce quotidianamente a ricordarmi.

 

Da dove partire?

Dall’enorme meningioma falcino asportato come secondo operatore dopo una brividante craniotomia sul seno sagittale superiore? Da weekend di turno caratterizzati da quasi 48h di urgenze in sala operatoria? O forse dall’assurdo caso d’urgenza neurochirurgica di un profugo ucraino della tenera età di 17 mesi? Magari dalla scomparsa di una delle canute colonne portanti del fragile edificio che chiamo vita? O di quando a 17 minuti dallo scoccare del mio 28esimo compleanno sono stato chiamato per una di quelle urgenze da “opera veloce o muore il paziente”?

 

Non esiste un ordine di importanza quando si tratta di un coacervo di episodi, di sensazioni, di faccende umane che intersecandosi, ridipingono la rosa dei venti delineando quello che è un nuovo ma insostituibile riferimento.

Oggi, ora più che mai, il quinto punto cardinale è l’empatia.



È comunione affettiva quando la sera prima del giorno X, con lo strutturato primo operatore, ti interfacci con la famiglia della paziente che opererai per quella maledetta macchia grigiastra che non la fa più dormire e non le permette di prendere in braccio i nipotini. Una concordia di sentimenti che si prolunga in quella fredda azzurra sala piastrellata, teatro dell’opera più maestosa e delicata che mi ha visto come inaspettato primo violino nel violare, con le mie mani tremanti, quello che è il recondito santuario che ci rende umani. Un’evoluzione empatica tradotta al risveglio con l’incrocio di sguardi, carichi di riconoscenza e sincera gratitudine; tradotti in un recupero di energie di incredibile sostanza che le hanno permesso di riabbracciare con forza i suoi cari.

 



È partecipazione emotiva quando al termine di un infinito turno di weekend, vieni risvegliato dal sopore delle 19.30 dalla voce tonante del tuo strutturato: “Svegliati, c’è un bambino ucraino in PS  da operare!” E ti ritrovi a stropicciarti con vigore gli occhi, riassettarti alla bella e meglio la divisa, a volare giù da quelle scale e ritrovarti in quella furibonda Babele di vite nota ai più come Pronto Soccorso, e bloccarti nello sguardo implorante di un papà spaventato per i gravi sintomi del biondissimo figlioletto che, fuggito in fretta e furia dalle bombe del cielo, è capitato in un’ignota parte di mondo ad essere teneramente appoggiato su un tavolo operatorio per avere modo di vedere un nuovo giorno luminoso. E la serata evolve e mi ritrovo a fianco dello strutturato di notte ad aprire un bambino e a trovare il misfatto e a risolverlo. E nella notte incalzante, da solo, a suturare con delicato rispetto quell’incisione parietale destra, segno di un giorno da dimenticare, immagine di un frammento di vita che ha il coraggio di evolvere e di imporsi nel caos che permea l’oggi.

 

E ti ritrovi un giovedì di un timido inizio primaverile, mentre ti prepari ad assistere ad un intervento su un altro cucciolo d’uomo, un piccolino che ne ha già vissute troppe per i suoi 4 mesi, a ricevere quella notizia che non avresti voluto ammettere. La scomparsa di una figura che nella sua saggia presenza e nella sua imponente certezza in ideali trasmessi con l’esempio, mi ha fornito gli strumenti che anno dopo anno si sono affinati nella certezza per affrontare qualsiasi sfida, qualsivoglia ostacolo che la vita, talvolta furbescamente, lanciava improvvisamente.

C’è chi vede nei nonni, accessori da non richiedere un termine che ne specifichi la perdita, come se dei nonni non si sia né orfani né vedovi: come se il tempo vorticoso dei nostri giorni creati con lo stampino di un fabbro costruttore, imponesse per moto naturale di lasciarli lungo la strada così come per distrazione, lungo la strada, si abbandonano gli ombrelli.

Ma io mi ricordo la sera di quel 16 ottobre di 3 anni fa, al termine di una pazza giornata che sanciva la chiusura di un capitolo lungo 6 anni e l’inizio di un altro durevole una vita intera. Mi ricordo di quando ho varcato la soglia del tuo piccolo mondo e tu, con quell’occhio lucido e stanco, hai incrociato il mio sguardo e subito hai capito: ‘’ Arda lè ol me dutùr” (guarda lì, il mio dottore). E di tutte quelle volte che, alzando i decibel per poterci capire ridendo perché non sempre mi veniva il termine giusto nel tuo arcaico ed eterno idioma, ti raccontavo visto il tuo passato in officina, che foravo la testa alla gente con un trapano per curarla e tu ridevi “ pff, col me laurà ga rie po' me” (con il mio lavoro-esperienza, ci riuscirei anche io).

Come potrei anche solo pensare di abbandonarti sul ciglio di una scialba strada senza nome che ha percorso la mia vita. Come potrei anche solo immaginare di non ricordarti ogni volta che sono chiamato ad esercitare la mia manualità in quella tanto amata sala operatoria, dopo tutte quelle volte che al banco di lavoro della tua buia cantina mi facevi provare ad aggiustare ingranaggi o arsi dal sole estivo, curavamo delicatamente i germogli del tuo fazzoletto di terra.

Semplici parole per non lasciarti andare.

O forse si.

Per lasciarti andare ma garantendomi il modo di tenerti sempre con me.

Nonno.

La vita è crescita, anche quando si traduce nel ricordo di chi ti ha dato tanto, nel silenzio di un gesto, nella delicatezza di uno sguardo.

 


Crescere.

 

E ci ritroviamo con un salto temporale di poco più di 30 giorni all’altra sera.

Reperibilità la notte del compleanno. Ma sì, è da un po' che non ci sono urgenze notturne..vuoi mettere che proprio stanotte..

23:43. “Sergio, sottodurale acuto, GCS 6, anisocorico maggiore per destra. Lo stanno intubando in PS. Ti aspetto in sala.”

Respiro, mi sciacquo la faccia, un goccio di caffè che è solo da scaldare, la moka è sempre pronta e piena in casa nostra.

Volo in ospedale, mi cambio, cuffietta regalata da lei con i segni della Terra di Mezzo stampati come anatemi per scongiurare le scorribande del Male.

Preparo il necessario, arriva il paziente con lo strutturato. Rasatura, posizionamento, disegno la linea mediana e quella che sarà l’incisione frontotemporoparietale destra che ci permetterà l’accesso là dentro, proprio là.

Ci laviamo in silenzio. Un silenzio carico di angoscia mista a tensione e ferrea determinazione, mentre di là bip irregolari ci avvisano della triade di Cushing che impetuosamente si avvicina.

Coperti dai nostri manti sterili, oso mettermi nella posizione da primo operatore. Incrocio lo sguardo del mio strutturato, non una parola ma due occhi che mi confermano: “tocca a te, sai come fare!”.

 

Bisturi.

Raney. 

Bipolare.

Forbice.

Ribalto il lembo miocutaneo one-layer e lo stabilizzo con due ami.

Una frattura lineare si evince nel mezzo della porzione di cranio esposta, una linea che spezza la continuità come quel momento, un’incisura a sé stante nel tempo di quella notte.

Trapano. Due fori craniotomici, rapidi.

Craniotomo. Mano sempre un po' tremante in questa fase: se non appoggi e governi bene lo strumento potresti creare un bel po' di danni al parenchima sottostante. Creo la mia strada con un dissettore: piede sinistro sul pedale, mano destra sul craniotomo. 

Si parte. E in men che non si dica mi ritrovo con lo scollatore a ribaltare l’opercolo.

Si, non mi ricordo più come si respira.

Ma forse le cose progrediscono sufficientemente bene.

La dura madre sottostante è integra ad eccezione della porzione corrispondente alla rima di frattura ossea.

Pinze da dura, forbice.

Apro la dura a stella, ribalto i margini ed eccolo lì: l’enorme e spessa falda di ematoma che continua a comprimere il parenchima cerebrale, inducendo quella sofferenza diffusa. 

Lavo e aspiro e asporto con dissettore.

 

Secondi? Minuti?

Chi può dirlo. Chi ha avuto il tempo di contarli.

Coagulo qualche vaso corticale che getta.

Il parenchima è deteso, pulsa. I bip ora mi piacciono un po' di più. E il mio centro pneumotassico si ricorda di avvisarmi che si, posso tornare a una frequenza respiratoria umana.

 

Incrocio lo sguardo dello strutturato. Sorride. Io pure.

Buon compleanno a me.

 

Crescere forse è proprio questo. Procurarsi qualcosa che ti regali un po' di poesia, illusioni sparse e qualche intensa sensazione qua e là, ché la poesia costa poco, le illusioni aiutano a vivere e quelle sensazioni lì fanno bene al cuore.

E se hai la fortuna di condividere tutto questo.

Beh, allora hai trovato proprio l’Eldorado che si nasconde ai più.

Hai scovato il senso più vero di tutto: crescere, amando.

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