Ho appena finito di leggere un libro, anzi no, due libri.
Un condensato di 150 pagine circa che normalmente potrebbero scivolare quasi nell’indifferenza di una lettura “da compagnia” per giornate noiose e uggiose, ma che in questo caso si sono rivelate un macigno ben più ostico da superare, digerire, codificare.
Ho appena finito di leggere due libri ed è un mese e tre giorni che non esco di casa, isolato per le progressive positività all’indagine molecolare del ben noto virus dei membri della mia famiglia e anche mia.
Un fulmine a ciel sereno che ha paralizzato la nostra quotidianità, che ha sancito la progressione delle nostre giornate nell’attesa snervante che terminassero il prima possibile per arrivare al famigerato d-day dell’ennesimo tampone.
E tra un colpo di tosse e il gusto che se ne va per poi ritornare lesto, mi sono scontrato per caso con una brutalità quasi devastante con questi due racconti, intrisi di realtà, di sangue, di umanità.
Una realtà che spesso fa da frequente sfondo a titoloni acchiappa consensi e da triste palcoscenico per discutibili opinionisti.
Sapete, io sono un divoratore di libroni, di storie che sembrano non finire mai.
Aver preso questi libricini sembrava più che altro un errore, o forse no.
Libri così sottili per volume, ma così ingombranti, dei veri pachidermi, per tema affrontato.
In questi libri si vola, dal Kurdistan all’Angola, dall’Etiopia al Perù passando per la Cambogia, Gibuti e l’Afghanistan, che diventa la regina incontrastata in uno dei due volumi.
In questi libri si gustano sapori dimenticati, si percepiscono fragranze appartenenti a tribù, mondi distanti da noi anni luce.
In questi libri si piange o si vomita.
In questi libri però si sorride.
È un sorriso amaro, che con timidezza nasconde dolore, ma che cerca di evidenziare le piccole e grandiose conquiste che un team variegato di professionisti raggiunge, in contesti a dir poco incredibili.
Questi libri mi hanno accompagnato in parte, durante questa quarantena infinita.
Sono state il comburente d’inchiostro per la combustione dei miei pensieri che non trovavano un filo conduttore perché ossessionati dal ‘ma come è possibile che siamo positivi con tutte le precauzioni?!’ al ‘non ne usciremo mai!’.
Estremizzo forse, ma vi assicuro che la gestione di una quotidianità e di un’infezione in famiglia, mi ha talvolta fatto qualche fastidioso sgambetto.
Ed ecco che questi libri mi hanno spento, o forse mi hanno acceso.
Hanno accesso il lume di una valutazione più ampia, di un allargamento dei confini, hanno spento il neglect che mi stava affliggendo miseramente.
O meglio, nel quale mi imponevo di giacere commiserandomi della situazione che vivevo, che sto vivendo.
In medicina, il Neglect è la negligenza spaziale unilaterale o eminattenzione spaziale: paroloni che traducono l’esito di una lesione cerebrale inducente un fastidioso disturbo della cognizione spaziale nel quale, il paziente ha difficoltà ad esplorare lo spazio controlaterale alla lesione e non è consapevole degli stimoli presenti in quella porzione di spazio esterno o corporeo e dei relativi disordini funzionali.
Che l’abbiate letta tra le righe di Sacks o ascoltata di sfuggita a lezione oppure anche se questo termine non vi accende alcun riferimento, non preoccupatevi.
Non è mia intenzione soffermarmi sui perché.
Ma sul come.
Come due libri siano stati in grado di spegnere il mio neglect.
No, non per le classiche lesioni al lobulo parietale inferiore o ai meno frequenti danni sottocorticali a livello talamico.
No, il mio neglect tradotto nella cecità e nella mia autocommiserazione delle ultime settimane.
Neglect è trascurare, nella sua accezione etimologica più antica.
Non voglio cadere nel banale e scolastico ‘c’è di peggio’.
Ma la riflessione ruota proprio attorno a questo pilastro, tante volte citato con noncuranza come un mantra per dare tregua alla nostra coscienza, senza però dare peso a quanto ignoriamo, a quanto trascuriamo davvero.
Questi libri hanno avuto la pazienza di accogliermi, abbattendo quel fastidioso neglect che andava erroneamente a focalizzare le mie paranoie sì su un problema personale-famigliare, ma senza considerare che nella sua assurda difficoltà, non aveva ragione d’essere quel persistente stato di lamentela, di invocazione a chissà che divinità dei Pantheon riuniti per ottenere chissà che chiave di lettura per questa situazione.
Il più fine dei neurologi tra di voi allora potrebbe consolarmi dicendo che coloro i quali soffrono di sindrome di eminattenzione sono quasi sempre completamente anosognosici, non hanno cioè consapevolezza del proprio deficit.
No, cari miei, questa non è una scusante.
Sono stanco di tergiversare.
Questi volumetti sono stati per me come il mezzo definitivo per sbarazzarmi del mio velo di Maya, per poter accedere alla realtà nuda e cruda che in un certo modo mi ha permesso di razionalizzare la mia situazione, di semplificarla quasi come facevamo al liceo con quelle odiose frazioni irrazionali.
L’accenno a Schopenhauer è perché il neglect che mi ha accecato e indotto a considerare la mia, come la situazione peggiore dalla quale non trovare via d’uscita, altro non è che la traduzione di quell’ostacolo che non mi ha garantito di approcciarmi al tutto in maniera più serena, senza isolarmi.
No ok, questa non era voluta! Isolato si, ma non mentalmente!
Ho appena finito di leggere due libri che, come la volontà di vivere in grado di squarciare il famigerato velo, mi hanno liberato gli occhi e che, per gli amanti di Platone, mi hanno permesso di uscire dalla caverna risvegliando così la mia anima, facendomi rendere conto che trascurare il bistrattato “c’è di peggio” non mi dà garanzia di superare questa situazione di positività negativa.
Ma sapete, forse c’è qualcosa di più.
In questi libri.
Due elementi in più che sono stati utilizzati come armi improprie per sconfiggere quell’incatenante percezione della quotidianità.
La chirurgia e i sorrisi.
Si, perché tra lo scoppio improvviso di una bomba e una corsa a perdifiato per attraversare il fronte, tra parole in una lingua sperduta e le temperature glaciali a più di 4000m, il tempo a volte si ferma in quella che è un luogo dove tutto succede tranne che l’arresto delle azioni, ma che anzi è un travolgente susseguirsi di mani che prendono, incidono, isolano, clampano, suturano, salvano.
È la sala operatoria che nasce sotto una tenda montata in men che non si dica.
È la sala operatoria che rivive dalle macerie di un quadrato di piastrelle in frantumi.
È la sala operatoria che affronta sfide che semplici righe macchiate d’inchiostro danno solo una parvenza di straordinarietà.
È la sala operatoria dove si fronteggiano sconfitte che puzzano di morte.
È la sala operatoria che celebra la ripresa di un battito sinusale o di un arto che riprende colore, polso, vita.
E sono questi sprazzi di concretezza su un mondo tanto lontano ma tanto vicino, che mi risvegliano dal torpore inculcandomi quella specie di genuino orgoglio se penso che anche io avrò la medesima fortuna. Si spera.
Ma non è solo il riverbero delle lampade scialitiche che mi ha finalmente risvegliato.
Sono anche quei sorrisi, che emergono dalle mascherine di chirurghi chini per ore e ore a correggere quel difetto, a salvare l’insalvabile.
Ed è così quindi che nel mio silenzio, anche un sorriso può fare rumore.
Un rumore che spacca quell’angosciosa e a tratti esagerata sensazione di paralisi di fronte a un improvviso ostacolo.
Se per me è stato il connubio chirurgia e sorrisi a limare l’insostenibilità del momento, facendo scemare quel crudele neglect verso orizzonti più ampi, forse chiunque può avere il coraggio di trovare la propria accoppiata vincente per trascendere la difficoltà.
Ho appena finito di leggere un libro, anzi due.
Pappagalli verdi.
Buskashì.