domenica 20 dicembre 2020

Ho appena finito di leggere un libro

Ho appena finito di leggere un libro, anzi no, due libri. 

Un condensato di 150 pagine circa che normalmente potrebbero scivolare quasi nell’indifferenza di una lettura “da compagnia” per giornate noiose e uggiose, ma che in questo caso si sono rivelate un macigno ben più ostico da superare, digerire, codificare.

 

Ho appena finito di leggere due libri ed è un mese e tre giorni che non esco di casa, isolato per le progressive positività all’indagine molecolare del ben noto virus dei membri della mia famiglia e anche mia.

Un fulmine a ciel sereno che ha paralizzato la nostra quotidianità, che ha sancito la progressione delle nostre giornate nell’attesa snervante che terminassero il prima possibile per arrivare al famigerato d-day dell’ennesimo tampone.

 

E tra un colpo di tosse e il gusto che se ne va per poi ritornare lesto, mi sono scontrato per caso con una brutalità quasi devastante con questi due racconti, intrisi di realtà, di sangue, di umanità. 

Una realtà che spesso fa da frequente sfondo a titoloni acchiappa consensi e da triste palcoscenico per discutibili opinionisti.

 

Sapete, io sono un divoratore di libroni, di storie che sembrano non finire mai.

Aver preso questi libricini sembrava più che altro un errore, o forse no.

Libri così sottili per volume, ma così ingombranti, dei veri pachidermi, per tema affrontato.

 

In questi libri si vola, dal Kurdistan all’Angola, dall’Etiopia al Perù passando per la Cambogia, Gibuti e l’Afghanistan, che diventa la regina incontrastata in uno dei due volumi.

In questi libri si gustano sapori dimenticati, si percepiscono fragranze appartenenti a tribù, mondi distanti da noi anni luce. 

In questi libri si piange o si vomita.

Si piange per la difficoltà di comprendere e capire certe situazioni, si vomita per l’impatto di corpi mutilati, che con violenza fanno capolino tra un kalashnikov di stampo sovietico e uno strambo aggeggio verde dipinto che viene scambiato per gioco ma che si tramuta in trappola mortale.

 

In questi libri però si sorride.

È un sorriso amaro, che con timidezza nasconde dolore, ma che cerca di evidenziare le piccole e grandiose conquiste che un team variegato di professionisti raggiunge, in contesti a dir poco incredibili.

 

Questi libri mi hanno accompagnato in parte, durante questa quarantena infinita.

Sono state il comburente d’inchiostro per la combustione dei miei pensieri che non trovavano un filo conduttore perché ossessionati dal ‘ma come è possibile che siamo positivi con tutte le precauzioni?!’ al ‘non ne usciremo mai!’.

 

Estremizzo forse, ma vi assicuro che la gestione di una quotidianità e di un’infezione in famiglia, mi ha talvolta fatto qualche fastidioso sgambetto.

Ed ecco che questi libri mi hanno spento, o forse mi hanno acceso.

Hanno accesso il lume di una valutazione più ampia, di un allargamento dei confini, hanno spento il neglect che mi stava affliggendo miseramente. 

O meglio, nel quale mi imponevo di giacere commiserandomi della situazione che vivevo, che sto vivendo.

 

In medicina, il Neglect è la negligenza spaziale unilaterale o eminattenzione spaziale: paroloni che traducono l’esito di una lesione cerebrale inducente un fastidioso disturbo della cognizione spaziale nel quale, il paziente ha difficoltà ad esplorare lo spazio controlaterale alla lesione e non è consapevole degli stimoli presenti in quella porzione di spazio esterno o corporeo e dei relativi disordini funzionali. 

 

Che l’abbiate letta tra le righe di Sacks o ascoltata di sfuggita a lezione oppure anche se questo termine non vi accende alcun riferimento, non preoccupatevi.

Non è mia intenzione soffermarmi sui perché.

 

Ma sul come.

Come due libri siano stati in grado di spegnere il mio neglect.

No, non per le classiche lesioni al lobulo parietale inferiore o ai meno frequenti danni sottocorticali a livello talamico.

 

No, il mio neglect tradotto nella cecità e nella mia autocommiserazione delle ultime settimane.

Neglect è trascurare, nella sua accezione etimologica più antica. 

 

Non voglio cadere nel banale e scolastico ‘c’è di peggio’.

Ma la riflessione ruota proprio attorno a questo pilastro, tante volte citato con noncuranza come un mantra per dare tregua alla nostra coscienza, senza però dare peso a quanto ignoriamo, a quanto trascuriamo davvero.

 

Questi libri hanno avuto la pazienza di accogliermi, abbattendo quel fastidioso neglect che andava erroneamente a focalizzare le mie paranoie sì su un problema personale-famigliare, ma senza considerare che nella sua assurda difficoltà, non aveva ragione d’essere quel persistente stato di lamentela, di invocazione a chissà che divinità dei Pantheon riuniti per ottenere chissà che chiave di lettura per questa situazione.

 

Il più fine dei neurologi tra di voi allora potrebbe consolarmi dicendo che coloro i quali soffrono di sindrome di eminattenzione sono quasi sempre completamente anosognosici, non hanno cioè consapevolezza del proprio deficit.

No, cari miei, questa non è una scusante.

 

Sono stanco di tergiversare.

Questi volumetti sono stati per me come il mezzo definitivo per sbarazzarmi del mio velo di Maya, per poter accedere alla realtà nuda e cruda che in un certo modo mi ha permesso di razionalizzare la mia situazione, di semplificarla quasi come facevamo al liceo con quelle odiose frazioni irrazionali.

 


L’accenno a Schopenhauer è perché il neglect che mi ha accecato e indotto a considerare la mia, come la situazione peggiore dalla quale non trovare via d’uscita, altro non è che la traduzione di quell’ostacolo che non mi ha garantito di approcciarmi al tutto in maniera più serena, senza isolarmi.

No ok, questa non era voluta! Isolato si, ma non mentalmente!

 

Ho appena finito di leggere due libri che, come la volontà di vivere in grado di squarciare il famigerato velo, mi hanno liberato gli occhi e che, per gli amanti di Platone, mi hanno permesso di uscire dalla caverna risvegliando così la mia anima, facendomi rendere conto che trascurare il bistrattato “c’è di peggio” non mi dà garanzia di superare questa situazione di positività negativa.

 



Ma sapete, forse c’è qualcosa di più.

In questi libri.

Due elementi in più che sono stati utilizzati come armi improprie per sconfiggere quell’incatenante percezione della quotidianità.

 

La chirurgia e i sorrisi.

Si, perché tra lo scoppio improvviso di una bomba e una corsa a perdifiato per attraversare il fronte, tra parole in una lingua sperduta e le temperature glaciali a più di 4000m, il tempo a volte si ferma in quella che è un luogo dove tutto succede tranne che l’arresto delle azioni, ma che anzi è un travolgente susseguirsi di mani che prendono, incidono, isolano, clampano, suturano, salvano.

È la sala operatoria che nasce sotto una tenda montata in men che non si dica.

È la sala operatoria che rivive dalle macerie di un quadrato di piastrelle in frantumi.

È la sala operatoria che affronta sfide che semplici righe macchiate d’inchiostro danno solo una parvenza di straordinarietà.

È la sala operatoria dove si fronteggiano sconfitte che puzzano di morte.

È la sala operatoria che celebra la ripresa di un battito sinusale o di un arto che riprende colore, polso, vita.

 

E sono questi sprazzi di concretezza su un mondo tanto lontano ma tanto vicino, che mi risvegliano dal torpore inculcandomi quella specie di genuino orgoglio se penso che anche io avrò la medesima fortuna. Si spera.

 

Ma non è solo il riverbero delle lampade scialitiche che mi ha finalmente risvegliato.

Sono anche quei sorrisi, che emergono dalle mascherine di chirurghi chini per ore e ore a correggere quel difetto, a salvare l’insalvabile. 

Ed è così quindi che nel mio silenzio, anche un sorriso può fare rumore. 

Un rumore che spacca quell’angosciosa e a tratti esagerata sensazione di paralisi di fronte a un improvviso ostacolo.

 

Se per me è stato il connubio chirurgia e sorrisi a limare l’insostenibilità del momento, facendo scemare quel crudele neglect verso orizzonti più ampi, forse chiunque può avere il coraggio di trovare la propria accoppiata vincente per trascendere la difficoltà.

 

Ho appena finito di leggere un libro, anzi due.

Pappagalli verdi.

Buskashì.

mercoledì 9 dicembre 2020

Piove

 Piove.

Tempesta.

 

Fuori dalla mia camera, dentro la mia anima.

La ruota degli eventi gira caotica, raffazzonando un senso, una direzione per poter garantire il ripristino dell’armonia del quotidiano. O almeno, un accenno di normalità.

 

Piove e viviamo in un romanzo distopico.

Tempesta ma siamo sospesi, fluttuanti in un etere di sogni, speranze e diritti mancati.

 

È da qualche giorno ormai che la paradossale situazione che sto vivendo come giovane medico, come camice grigio (per i non addetti ai lavori, dicasi camice grigio il medico abilitato non specializzato), è sulla bocca di tanti: testate giornalistiche di tiratura nazionale, programmi radio ascoltati da migliaia di orecchie, testimoni inconsapevoli di tale dramma, servizi ai Tg nazionali perché si sa, finchè non c’è scalpore mediatico, non esiste la notizia o almeno non vale la pena che venga venduta sugli schermi.

È il paradosso di avere migliaia di medici bloccati da raggiri burocratici che da mesi hanno congelato le pratiche e non permettono loro di concludere in pace le normali procedure di assegnazione, immatricolazione ed inizio presso una scuola di specializzazione di stampo medico o chirurgico.

È l’ennesimo schiaffo che umilia il nostro essere giovani professionisti, il nostro essere persone.


 

Piove ma potrebbe non essere un male, in fin dei conti.

Perché ci ricorda che è parte di quel prezioso e perfetto equilibrio che l’ecosistema chiama vita: la natura e le leggi che la governano non cercano di sviare, di mostrare una completa assenza di cambiamenti disadattivi di fronte allo scorrere del tempo, innanzi allo stress indotto dai giorni che scorrono. 

No, piove, tempesta e la natura rimane salda, regolandosi a mantenere una delicata omeostasi.

 

La natura è lo specchio dei suoi numerosi abitanti variopinti, noi, esseri umani.

Attenzione però, alla fine noi umanità non siamo così statici, non siamo e basta. 

Sposo il concetto di Heinz von Foerster: dovremmo considerarci divenire umani e non esseri umani

Soggetti in grado di modificarsi, di adattarsi alle dinamiche del quotidiano, qualunque esse siano nonostante non si possa discendere due volte nel medesimo fiume perché tutto scorre, tutto scivola via. La natura però hai dei capisaldi a cui appellarsi, che emergono anche quando tutto pare andare rovinosamente.

 

E noi divenire umani cosa abbiamo?

La resilienza.

 

Termine abusato se ne esiste uno, viene inquadrata dall’American Psychological Association come "il processo di adattamento a fronte di avversità, traumi, tragedie, minacce o significative fonti di stress’’.

La classica definizione che accettiamo per un esame scritto all’università ma che qui non ci soddisfa, o almeno non soddisfa me.

 

Continua a piovere e un aroma di caffè caldo si sparge, forte, in questi pochi metri quadrati.


Sembra scontato usare l’odioso ‘Su dai non mollare’ tradotto accademicamente ed elegantemente in ‘resilienza’ per far fronte a quello che io con altri 24mila colleghi e amici stiamo esperendo. 

Ma non riguarda solo noi nati nei primi anni ’90 con questo folle e coraggioso desiderio di spendere la vita nelle quattro fredde mura di un ospedale, riguarda ciascuno di noi.

 

Si, anche te che hai avuto lo sbatti di arrivare fino qua.

Te e la tua voglia di divenire.

 

Quasi magicamente questa proprietà umana di presentare processi protettivi o positivi che riducano gli esiti disadattivi in condizioni di rischio, ha un tradotto concreto che fa rima con neuropeptidi, connessioni sinaptiche, definizioni epigenetiche.

Cercate la parola chiave resilience su Pubmed e troverete reviews varie che descrivono meglio quanto sto per accennare. Definendo come basilari i ruoli del sistema nervoso autonomo e dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel coordinare le risposte neurocomportamentali alla minaccia e ad altre forme di stress, sono diversi gli autori (Cathomas, Pfau per citarne alcuni) che considerano il concetto di resilienza come un processo che richiede l'integrazione di più sistemi centrali e periferici, che vanno da circuiti cerebrali specifici a fattori umorali del sistema immunitario e cambiamenti all'interfaccia tra il cervello e la periferia.

Addirittura, Pfau et al. hanno studiato il ruolo dei microRNA nel mediare le risposte infiammatorie e comportamentali allo stress nel modello della sconfitta sociale: hanno mostrato differenze preesistenti nel rilascio dei leucociti dell'interleuchina-6 che predicevano se un singolo animale svilupperà un fenotipo sensibile o resiliente. 

 

Insomma, un piccolo accenno per evidenziare quanto profondo e intricato e meraviglioso sia il percorso di definizione di una delle capacità che non ci tratteggiano come esili canne sbattute dal vento ma come possibili poderose querce ben radicate a terra.

 

E ancora una volta nei miei deliri raggruppati a guisa di patetico tentativo di testo unico, traspare evidente quella che è quell’ammirazione sconfinata verso il più misterioso organo della cattedrale del nostro corpo: ecco il cervello che con malcelata umiltà sottolinea a suon di connessioni neurali e microscopici messaggeri, il nerbo che dà origine alla nostra capacità nel divenire, nostro e del mondo, di resistere, di adattarci, di crearci un significato che dia senso a tutto quello che viviamo.

Dà origine al nostro essere resilienti. Al nostro divenire resilienti.

 

Quindi dai, un commovente tentativo di tradurre in scientifichese la famosa perla: ''Perché cadiamo, signore? Per imparare a rimetterci in piedi''.

Alfred sarebbe fiero di noi.

 

No, non mi basta.

 

Resilienza potrebbe per molti avere una traduzione diversa: anni luce dalla neurobiologia, è derivabile anche da un concetto filosofico, quello che Platone chiama “Thymoeldès”, che in greco significa “respiro”, ma anche “cuore”, un termine che rimanda all’anima, a quell’ambito che rende l’anima capace, adeguatamente allenata, di cogliere tutto ciò che è vero emozionalmente.

Secondo questa visione, sarà proprio l’emozionalità a legarsi con la parte razionale e a dirigerla, a renderla resiliente.

Questa visione è tradotta in un’immagine nel Fedro: una biga con due cavalli. L’auriga che guida la biga è la razionalità e i due cavalli rappresentano la passione e l’emozione. L’emozione è un cavallo bianco che comprende il linguaggio dell’auriga (l’anima razionale) ed è continuamente attiva nell’atto di moderare il cavallo nero simbolo invece delle passioni.

 

Thymoeldès è quindi forza d’animo, che con ardore media il conflitto del divenire del mondo e dei cambiamenti della vita, delle nostre vivide passioni e della calcolatrice razionalità.

 

Thymoeldès è resilienza. E indovinate Platone dove localizza l’origine della resilienza?

Nel cervello direte voi.

Nel cuore, dice Platone.

 

Il cuore è dimora metaforica del sentimento, inteso non come placido e rilassante atteggiamento ma come forza. 

Forza che ci permette di scegliere, senza farci vincere dall’eterna diatriba dei pro e dei contro, che ci permette di resistere al divenire, senza cadere nel difetto di identificarci come stranieri nella nostra stessa vita, o peggio come spettatori.

 

La forza d’animo, che è poi la forza del sentimento, ci difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di noi.  

 

E anche nell’urgenza paradossale della realtà di questi giorni che accomuna noi giovani medici, fare nostro il pensiero di Platone che si coniuga con le più recenti ricerche che dimostrano scientificamente l’essenza della resilienza, può forse darci uno spiraglio per rimanere aderenti alla nostra vita, alla nostra scelta, nonostante tutto.

E così in ogni sfida.

 

Non ha ancora smesso di piovere.

Eppure, c’è una luce che filtra tra le tende.

È un monito che nella sinfonia del ticchettio delle gocce sul davanzale fuori, suona cosi: ‘’se noi lasciamo la nostra luce splendere inconsciamente diamo alle altre persone il permesso di fare lo stesso, appena ci liberiamo dalla nostra paura, la nostra presenza automaticamente libera gli altri’’.