La prima volta a tu per tu con la sostanza bianca non te la scordi mai.
Quando “Dai su facciamo fare un po' a Capelli” e ti ritrovi catapultato sul trono mobile del primo operatore a chiedere gli strumenti da micro per tentare di affrontare un nemico infido e dai labili contorni.
Non te lo dimentichi facilmente.
Muscoli che si tendono come la corda di un violino prima di un’importante sonata.
Fiato corto come se stessi scalando quella vetta.
Cuore che batte all’impazzata: lo senti rimbombare nelle orecchie mentre il respiratore ritma con silenzioso rumore lo scandire del tempo.
Sono passate le canoniche 24 ore di risveglio protetto e forse riesco a realizzare.
Sono al mio necessario ritorno a casa per 48h di evasione, attraversando lo stivale al ritmo incessante della locomotiva e mi prendo del tempo per concretizzare questo.
Aiutare E. agendo direttamente e personalmente sulla causa di tutto.
Avevo capito che sarebbe stato tutto un po' diverso questa volta.
E’ il mio turno di reparto e sta a me accogliere E. e tutte le sue paure, mascherate da un viso che assume lo sguardo di sfida della sua età ma che cerca conforto nella sicurezza di mamma e papà che mostrano il loro amore con delicata vicinanza.
Che incredibile specie, i genitori!
Qui, dove ti confronti quotidianamente con malattie che durante medicina leggevi incuriosito sui libri mai pensando che potessero interessare un cucciolo d’uomo. Qui dove la malattia si traduce in resilienza, vedi volti, ascolti voci di mamme e papà che stanno dando tutti loro stessi per i loro virgulti. E’un impatto che forse non riesco a capire appieno, ma del quale rimango affascinato: quasi fosse una magia che riescono a perpetuare per la loro famiglia.
Giratevi indietro e guardate i vostri genitori, aprite la galleria sul telefono e cercate una foto con loro o chiamateli subito se siete lontano: dite loro grazie. A priori.
Ma torniamo a quell’incontro con E.
Se non fosse stata per la musica, sarebbe stato un intervento come un altro. L’avrei vissuto si interessato ma ad un certo punto avrei abbandonato mentalmente per la stanchezza che talvolta soggiunge.
No, questa volta no.
Addirittura i Tokio Hotel e gli Evanescence. Sorrido nel trovare una breccia per poter comunicare con E. Da lì voli pindarici che toccano mondi lontani che ricordano la mia lontana adolescenza sino ad arrivare al più recente magico mondo degli ShadowHunters. Sapete, ho un rapporto particolare con loro: ho letto tutti i romanzi della serie recuperandoli nella biblioteca del mio paesello bergamasco. La particolarità è averli letti non a 14-15 anni come il mondo vorrebbe ma 7-8 anni dopo circa per sopravvivere alla mia vita da pendolare per l’università, quando fare medicina era tutto tranne che l’avventura che volevo in tutto e per tutto, quando cercare un angolo in cui scappare e rifugiarmi era ossigeno puro.
Era da tanto che non ritornavano nelle mie giornate. E quel biglietto di E. prima che io uscissi.
Mi aveva introdotto in un mood che non sperimentavo da tempo.
Non sempre è facile ricordarsi cosa significa la scelta che segna quotidianamente le nostre giornate, in quanto medici. Soprattutto medici specializzandi.
Chi come me sta vivendo questa fase della sua formazione sa cosa intendo.
Per chi dovrà viverla, niente spoiler.
Per chi non ha idea di cosa stia dicendo, ve la riassumo così: lo specializzando si dimentica di essere medico. Segretario, burocrate, infermiere, strumentista, postino, studente, tuttofare.
Alienazione.
Sconforto.
Il treno scorre veloce e il crepuscolo si insinua con una luce fioca modulata da una nebbiolina leggera che si staglia sui cipressi toscani. E la discografia della mia adolescenza suona nelle mie orecchie isolandomi un po' da tutto: si, le solite canzoni e i soliti gruppi.
Inguaribile romantico? Noioso ascoltatore? In ogni caso si, perché si.
Avere la fortuna di dedicarsi al paziente per il motivo base per cui ci definiamo professionalmente parlando, è un’eccezione che quando capita illumina, scalda, rincuora.
Per cui sapevo che, per definizione, quello non sarebbe stato un caso come un altro, uno dei nomi che avrei aggiunto alla nota del telefono ‘miei interventi IV anno’.
Ah già, in tutto questo catapultato al penultimo anno di specializzazione. A quest’ora nel 2026 sarò specialista.
Rido a pensarci. Anzi sto ridendo proprio ora mentre faccio alzare il mio elegante vicino di treno e questo sorride a sua volta. Siamo strani noi esseri umani. Strani e meravigliosi.
L’intervento scorre nella sua confortante e regolare routine tecnica.
Gesti attenti e precisi. Ogni istante è importante.
Un elemento che apprezzo infinitamente quando si operano patati: la dolce attenzione a ogni particolare. Una dignità chirurgica che incornicerei ad ogni step.
Siamo a buon punto, si sta procedendo spediti. Chi opera ha una mappa mentale allucinante: districarsi quando ci si tuffa nel mare magnum sottocorticale dove la grigia lascia spazio alla bianca, dove la fusione tra eloquente e ancor più eloquente è questione di millimetri.
Millimetri. Vi rendete conto?!
Si certo, non a caso il neurochirurgo opera utilizzando il microscopio.
Si, ok.
Millimetri.
Forse alle medie quando dovevate fare disegno tecnico avevate una vaga consapevolezza delle misure. O così almeno era per me.
Fino a ieri forse.
Quando con mano tremante ma mente ferma ho ballato un valzer tra pinza bipolare e forbice da micro per esplorare quei mondi profondi, sgusciando il male di E. risparmiando il delicatissimo involucro che ha nel nome una devozione quasi religiosa.
E dissecando cautamente la pia madre, completare così la resezione.
Nomi altisonanti che suonano come uno dei movimenti chirurgici più delicati ed eleganti mai visti. Tutto sempre con l’obiettivo di minimizzare il danno al contenuto, il più nobile di tutti.
Certo, le mie mani, la delicatezza e l’eleganza è un menage a trois che ancora non è ben definito. Ma quello che è successo ieri sera in quel quadrato di verde piastrellato, è stata come una rivelazione.
Sarà spesso estraniante questa fase di formazione ma è piena di attimi che valgono tutto.
E credetemi. Sono tanti gli anni passati da quel settembre 2013, quando con un calzoncino poco consono, un accenno patetico di barba e la pelle bianco latte mi sono presentato timoroso del futuro a sostenere un test che avrebbe stravolto la mia vita.
Credetemi se, in questi anni, la pazienza è tutto tranne che la prima dote che imparerete a dominare e ad avere come la più valida e certa degli alleati.
Credetemi anche se spesso la testa è fissa su quel motivetto che, sono certo, tanti avranno come abituale compagno di stanza: ossia quel ‘ma chi me l’ha fatto fare’ che pesantemente adombra le nostre giornate.
Credetemi perché poi capita quell’attimo in cui ti ritrovi a confrontarti con quel paziente ed uscirne arricchito. Perché sei parte più che attiva nel ridare una nuova chance a una vita che aveva intrapreso il più fastidioso dei percorsi ad ostacoli. Perché quando ti prenderai il tempo a suturare quella cute e deciderai di far mettere in sala quella musica, sorriderai anche solo perché sai che questa volta ci hai provato per davvero. Perché quando incrocerai lo sguardo di quei genitori, saprai che non dovrai indossare l’ennesima maschera che ti viene richiesta in questo gioco di ruoli ma potrai ricambiare con fermezza il coraggio che ti sarà derivato dalle ultime 9 ore trascorse proprio là.
Credetemi perché quell’attimo potrà dare un lampo di luce, ma sarà compito vostro trasformare un balzo improvviso in una continua fonte di calore. Certo, per me questo passaggio passa attraverso la condivisione con lei, lei che rischiara il mio quotidiano e prova con forza inesauribile a accendere lo stoppino che alimenta tutto quando in realtà è proprio lei il mio tutto senza la quale tutto avrebbe la tinta unica del non colore per eccellenza.
Credetemi perché è una figata pazzesca.
Adesso la luce fuori dal finestrino ha lasciato spazio a ombre indistinte. Il mio vicino legge un vecchio e logoro romanzo. Io sto tornando a casa, anche se solo per poco ma torno nel suo abbraccio. Per poter far persistere questa luce bianca.
Sorrido.